«Non è stato il vento ad atterrare questo palo» osservò Pencroff.
«No» rispose Gedeon Spilett. «La terra è stata scavata alla sua base ed è stato divelto da mano d’uomo.»
«Inoltre, il filo è spezzato» aggiunse Harbert, mostrando le due estremità del filo di ferro, ch’era stato rotto violentemente.
«La rottura è recente?» chiese Cyrus Smith.
«Sì,» rispose Harbert «è stata prodotta da poco tempo.»
«Al recinto! Al recinto!» gridò il marinaio.
I coloni si trovavano allora a metà strada fra GraniteHouse e il recinto. Dunque rimanevano loro ancora due miglia e mezzo. Si avviarono a passo di corsa.
Infatti, c’era da temere che fosse accaduto qualche grave avvenimento al recinto. Indubbiamente, Ayrton aveva mandato un telegramma, che non era arrivato. Ma la ragione dell’inquietudine dei suoi compagni era più grave; la circostanza più inesplicabile era che Ayrton, mentre aveva promesso di tornare la sera innanzi, non si era ancora visto. Inoltre, non era senza un motivo, che era stata interrotta ogni comunicazione fra il recinto e GraniteHouse. E chi altri se non i pirati aveva interesse a interrompere questa comunicazione?
I coloni correvano, dunque, con il cuore stretto dall’emozione. Si erano ormai sinceramente affezionati al loro nuovo compagno. Stavano forse per trovarlo colpito dalla mano stessa di coloro di cui un tempo era stato il capo?
Giunsero in breve al punto in cui la strada costeggiava il ruscelletto derivato dal Creek Rosso, che irrigava le praterie del recinto. Avevano allora moderato il passo, per non arrivare ansanti nel momento in cui era forse necessario cimentarsi in una lotta. I fucili non erano più in posizione di riposo, ma pronti a far fuoco. Ognuno sorvegliava un lato della foresta. Top faceva sentire dei sordi brontolii, che non erano di buon augurio.
Lo steccato di cinta apparve finalmente attraverso gli alberi. Non vi si vedeva alcuna traccia di danni. La porta era chiusa come al solito. Un silenzio profondo regnava nel recinto. Non si facevano sentire né i belati consueti dei mufloni, né la voce di Ayrton.
«Entriamo!» disse Cyrus Smith.
E l’ingegnere avanzò, mentre i suoi compagni, appostati a venti passi da lui, erano pronti a far fuoco.
Cyrus Smith alzò il saliscendi interno della porta e stava per spingere uno dei battenti, quando Top abbaiò violentemente. Di sopra la palizzata si udì uno sparo, cui rispose un grido di dolore.
Harbert, colpito da una palla, giaceva a terra!
CAPITOLO VII
IL GIORNALISTA E PENCROFF NEL RECINTO «IL TRASPORTO DI HARBERT» DISPERAZIONE DEL MARINAIO «CONSULTO FRA IL GIORNALISTA E L’INGEGNERE» METODO DI CURA «RINASCE QUALCHE SPERANZA» COME AVVERTIRE NAB? «UN MESSAGGERO SICURO E FEDELE» LA RISPOSTA DI NAB
AL GRIDO di Harbert, Pencroff, lasciando cadere la sua arma, s’era slanciato verso di lui.
«Me l’hanno ucciso!» gridava. «Lui, il mio caro ragazzo! Me l’hanno ucciso!»
Cyrus Smith e Gedeon Spilett si erano precipitati verso Harbert. Il giornalista ascoltava se il cuore del povero ragazzo battesse ancora.
«Vive!» disse. «Ma bisogna trasportarlo…»
«A GraniteHouse? È impossibile!» rispose l’ingegnere.
«Al recinto, allora!» gridò Pencroff.
«Un momento» disse Cyrus Smith.
E si slanciò a sinistra, in modo da girare attorno al recinto. Là si trovò alla presenza di uno dei deportati che, mirandolo, gli attraversò il cappello con una palla. Pochi secondi dopo, prima ancora che avesse avuto il tempo di sparare un secondo colpo, questi cadeva, colpito al cuore dal pugnale di Cyrus Smith, più sicuro ancora del fucile.
Contemporaneamente Gedeon Spilett e il marinaio si issarono sugli angoli della palizzata, la scavalcarono, saltarono dentro al recinto, abbatterono i puntelli, che sostenevano la porta internamente e si precipitarono nella casa, ch’era vuota, e subito dopo il povero Harbert riposava sul letto di Ayrton.
Alcuni istanti più tardi Cyrus Smith era vicino a lui.
Vedendo Harbert inanimato, il dolore del marinaio fu terribile. Singhiozzava, piangeva, voleva rompersi la testa contro il muro. Né l’ingegnere, né il giornalista poterono calmarlo. L’emozione soffocava anch’essi. Non potevano parlare.
Tuttavia fecero quanto dipendeva da loro per sottrarre alla morte il povero giovane, che agonizzava sotto i loro occhi. Gedeon Spilett, dopo i tanti incidenti di cui era stata ricca la sua vita, non era digiuno di qualche pratica di medicina spicciola. Sapeva un po’ di tutto e già in molte circostanze s’era trovato a dover curare ferite prodotte tanto da arma bianca che da arma da fuoco. Aiutato da Cyrus Smith, procedette, dunque, alle cure che lo stato di Harbert richiedeva.
A tutta prima, il giornalista fu colpito dal torpore generale che prostrava il giovinetto, torpore dovuto forse all’emorragia, forse alla commozione, se la palla aveva urtato un osso con tale forza da produrre una scossa violenta.
Harbert era estremamente pallido e il suo polso d’una debolezza tale, che Gedeon Spilett non lo sentiva battere se non a lunghi intervalli, come se fosse sul punto di fermarsi. In pari tempo, v’era una paralisi quasi completa dei nervi e della coscienza. Questi sintomi erano gravissimi.
Il petto di Harbert fu messo a nudo e, dopo che il sangue fu stagnato mediante alcuni fazzoletti, venne lavato con acqua fredda.
La contusione, o piuttosto la piaga contusa apparve: un foro ovale fra la terza e la quarta costola. Era là che Harbert era stato colpito.
Cyrus Smith e Gedeon Spilett voltarono allora il povero ragazzo, che lasciò sfuggire un lamento così flebile, da sembrare il suo ultimo respiro.
Un’altra piaga contusa insanguinava la schiena di Harbert e la palla che l’aveva colpito non tardò a uscirne.
«Dio sia lodato!» disse il giornalista «la palla non è rimasta nel corpo e non avremo da estrarla.»
«Ma il cuore?…» chiese Cyrus Smith.
«Il cuore non è stato toccato, altrimenti Harbert sarebbe già morto!»
«Morto!» esclamò Pencroff mandando un ruggito.
Il marinaio non aveva sentito che l’ultima parola del giornalista.
«No, Pencroff,» rispose Cyrus Smith «no! Non è morto. Il suo polso batte sempre. Ha mandato anche un gemito. Ma, nell’interesse stesso del vostro ragazzo, calmatevi. Abbiamo bisogno di tutto il nostro sangue freddo.»
Non ce lo fate perdere, caro amico.
Pencroff tacque, ma una reazione avvenne in lui e le lacrime gli inondarono il viso.
Intanto Gedeon Spilett cercava di richiamare alla memoria tutte le sue nozioni mediche e di procedere con metodo. Dopo l’esame fatto, egli aveva la certezza che il proiettile, entrato dal petto, era uscito per la schiena. Ma quali danni aveva potuto causare al suo passaggio? Ecco quello che anche un chirurgo di professione avrebbe stentato a dire in quel momento e che, quindi, era tanto più difficile per un giornalista.
Tuttavia, egli sapeva una cosa: e cioè che doveva prevenire la contrazione infiammatoria delle parti lese e poi combattere l’infiammazione locale e la febbre, che sarebbero derivate dalla ferita — ferita mortale, forse! Ora, quali specifici, quali antiflogistici usare? Come evitare l’infiammazione?.
A ogni modo, importava soprattutto che le due ferite fossero medicate senza, indugio. Non parve necessario a Gedeon Spilett provocare una nuova uscita di sangue, lavandole con acqua tiepida e comprimendone i margini. L’emoraggìa era stata abbondantissima e Harbert era fin troppo indebolito dalla perdita di sangue.
Il giornalista si accontentò di lavare le due piaghe con l’acqua fredda.
Harbert era adagiato sul fianco sinistro e fu lasciato in quella posizione.
«Non deve muoversi» disse Gedeon Spilett. «Ora si trova nella posizione più confortevole, perché le piaghe della schiena e del petto possano comodamente suppurare, ed è necessario un riposo assoluto.»
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