Saccinto Saccinto - Zenith

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Zenith: краткое содержание, описание и аннотация

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Zenith è la storia di un ragazzo che attraversa la morte ed è costretto a salvare nove anime per poter tornare alla vita.
Lo sfondo dark in cui si delinea Zenith è quello della notte della morte del protagonista Sico. Di ritorno a casa con la sua moto, si muove sull'asfalto bagnato dalla pioggia che ha investito Colleterno con il collo incassato tra le spalle per il freddo e per la strana sensazione che qualcosa di orrendo lo stia inseguendo in attesa di poterlo sopraffare. Il vecchio cimitero sulla collina incombe con le sue luci spettrali, la presenza della morte si fa sempre più densa. Sico perde il controllo della moto e finisce giù da una scarpata. La sua morte segna l'inizio delle nove ore della notte. Ogni ora un'anima appena morta raggiungerà Sico. Lui dovrà tornare indietro a prima della morte di ogni anima per poterla salvare, per poterne salvare più di quante ne possa perdere. Soltanto in questo modo potrà tornare alla vita con le nove anime.

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Stefano Saccinto

ZENITH

ISBN: 9788873043867

Proprietà letteraria riservata

© Stefano Saccinto

http://xrow16.wix.com/stefanosaccinto

Gli artwork e il layout di copertina sono stati elaborati da

© Phoenix Scolletta

Editore: Tektime

Questo libro è dedicato a chi si è preso la mia vita.

Certamente, se una concordia pressoché indissolubile connette le estremità finali dei primi elementi agli inizi dei secondi e unisce il calcagno di quelli che precedono alle teste di quelli che seguono immediatamente, tu sarai capace di abbracciare con la mente quell'aurea catena che si forma sempre tesa dal cielo alla terra; così pure, come puoi avere fatto una discesa dal cielo, facilmente potrai ritornare al cielo per una salita ordinata.

(Da Le ombre delle idee di Giordano Bruno) Estate, 1998

Capitolo 1

Il cielo era iniziato a venire giù dalla mattina presto di una giornata dei primi di luglio. Una raffica di grosse gocce di pioggia che sembrava un semplice temporale estivo aveva continuato a battere per tutto il tempo Colleterno, un avvallamento di case e altri edifici, per lo più abbandonati, disteso tra sette colli come Roma. Un posto quasi del tutto disabitato. Si diceva che gli avessero dato quel nome per via del vecchio cimitero delimitato da un basso e irregolare muro di tufi che circondava l'intera vetta della collina più alta, relegata per sempre nel silenzio e nella solitudine della morte.

Le strade di Colleterno erano state invase da fiumi d’acqua che si rigiravano contro gli spigoli dei marciapiedi, lo scroscio insistente di centinaia di fontane echeggiava lungo i canali e si amplificava nelle vie fino a insinuarsi nella testa come un insopportabile sottofondo mentale. Il freddo e il buio erano scesi con la rapidità di un'inaspettata invasione organizzata da forze soprannaturali. Al di là del volume impressionante di acqua, le auto, i pali della luce, i muri, le ringhiere dei balconi e gli angoli dei palazzi erano diventati deformi, ammorbiditi dall'umidità, quasi malleabili.

Avevo passato il pomeriggio con la fronte poggiata al vetro della portafinestra appannato regolarmente dal respiro, in piedi, nascosto in silenzio dietro una tenda come un'ombra immobile attratta dal richiamo di qualcosa di invisibile, a guardare il cielo di luglio piovere sulle terrazze delle case e colare giù per le ruvide facciate, rivestendo le strade, gli alberi e tutto quanto di un velo di piombo liquefatto che rifletteva oscurità. La città si era come diluita in una dimensione senza luce.

La paura di qualcosa di indefinito mi aveva tenuto in piedi contro il vetro per tutto quel tempo. Poi, quando la pioggia aveva smesso di colpo, mi ero risvegliato da quello strano, lunghissimo torpore. Avevo sfossato dall'armadio qualche indumento invernale e avevo scavalcato con un bacio le urla di mia madre che non voleva che uscissi. Avevo tirato lo scooter fuori dal garage e mi ero messo in strada. Avevo disceso il viale di casa lentamente, paralizzato dal freddo dell'aria e dall'oscurità che avvolgeva ogni cosa, col mento dentro il collo della felpa, le maniche fin sopra le dita e il collo incassato nelle spalle.

La casa dei miei nonni era al termine di un labirinto di stradine che portavano in un vicolo cieco e male illuminato alla periferia di Colleterno. All'esterno era un cubo sormontato dalla ringhiera del terrazzo, dalla facciata da rifare e con un solo finestrino grande quanto un libro, in corrispondenza del bagno. All'interno era un'unica stanza a pianterreno comprensiva di cucina, camera da letto e soggiorno, senza finestre. Le pareti screpolate si riunivano in una buia volta che il grande lampadario laccato in oro, dai portalampadine a forma di candele dentro bolle di vetro sottile, quasi non arrivava a illuminare. La pavimentazione era fatta da ruvide mattonelle opache a macchie frastagliate gialle e nere, divise da fughe larghe dentro le quali si formava una caratteristica forma di sporcizia umida e nera.

In sequenza ravvicinata c’erano una stufa a legno per cucinare, il tavolo e il letto. Ai piedi del letto c'era una cassapanca simile alla bara che Django si trascina per tutto un film e di fronte un armadio di legno scuro. Sul fianco dell'armadio qualcuno aveva avuto l'idea di appendere una stampa di Dalì con un manichino in posa drammatica pieno di cassetti. In un angolo irraggiungibile della stanza, sopra il materasso, dalla parte in cui il letto affiancava il muro, c’era una piccola mensola. Un cero, che mia madre continuava a sostituire e tenere acceso, illuminava i volti in bianco e nero di quattro giovani in foto, morti tempo prima. I loro occhi, accesi dal riflesso della fiamma, sembravano muoversi per la stanza. Non sapevo né chi fossero e né perché qualcuno avesse deciso di mantenerli vivi sul piccolo altare, sapevo solo che ogni volta che avevo trovato il coraggio di avvicinarmi a guardarli, da qualche parte nella mia mente una porta si era aperta e aveva cigolato su un corridoio oscuro e io avevo lasciato perdere le foto e mi ero costretto a ignorarle finché la porta nella mia mente non si era chiusa di nuovo.

L'odore di vecchio aveva ormai impregnato qualsiasi cosa all'interno della casa e ogni volta che ci andavo, mia madre riusciva a capirlo soltanto annusandomi i vestiti. L'avrebbe capito anche quella volta, ma i miei nonni erano andati via da un pezzo, avevo una copia delle chiavi e io e i miei amici non avevamo un altro posto dove andare a vedere la semifinale.

Quando i clacson delle moto suonarono dietro la porta di entrata, schiacciai l'ennesima sigaretta nel portacenere e andai ad aprire con una mano sugli occhi per proteggermi dai fari. Alzai la testa. Un rivolo di acqua e ruggine serpeggiava nello spessore della plastica trasparente mentre le ultime gocce si staccavano dalla tettoia sopra la porta. Uno strano silenzio interiore, come un leggero abbassamento di pressione, mi fece salire un conato di vomito. Il sottofondo mentale era scomparso.

«Hai preso le birre?» Claudio si sfregò le mani fra loro, dopo aver parcheggiato la moto.

«Non ho preso niente» tornai dentro, lasciando la porta aperta.

«Male. Partita senza birre è come fumetti senza nuvolette».

«Allora accontentati di guardare le figure».

«Hai visto che giornata?» disse Paolo «Da quest'anno è ufficiale che l'inverno comincia il quattro luglio».

Tornai alla mia sedia davanti al tavolo di fronte alla specchiera.

«Sono da soli sedici anni su questa Terra, ma una cosa del genere non l'avevo mai vista» disse ancora Paolo.

«Come sta la nostra televisione? Ha sempre quel problema dell'audio che prende e non prende?» chiese Claudio. Poi lanciò il giubbotto da qualche parte sul letto.

«Non lo so. Guardavo il telegiornale ma non stavo ascoltando».

«Senza birre e senz'audio. Pensavo che scherzassi quando dicevi che avrei dovuto accontentarmi delle figure».

Si avvicinò alla televisione, dopo aver raccolto il telecomando dal tavolo.

«Questa stufa non si può accendere, vero?».

Girai la testa indietro verso Domenico. Richiuse la porta alle sue spalle.

«Vero».

«Basterebbe un po' di legna».

«Tecnicamente siamo ancora in estate. In estate non si fa deposito di legna. E fuori è un po' difficile trovarne di asciutta» disse Paolo.

«Ma, cazzo, fa freddo. Quel tavolo per esempio non ci serve. Non abbiamo neanche le birre da poggiare. Che ne dici, eh?».

Domenico si avvicinò lentamente al mio orecchio.

«Che ne dici?» sentii il calore del suo fiato.

Mi girai. Non credevo che stesse parlando con me. Tornai a guardare la televisione.

La morte, la morte.

Che strano pensiero.

«Keep silence. Sta per iniziare» disse qualcuno.

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