Saccinto Saccinto - Zenith

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Zenith: краткое содержание, описание и аннотация

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Zenith è la storia di un ragazzo che attraversa la morte ed è costretto a salvare nove anime per poter tornare alla vita.
Lo sfondo dark in cui si delinea Zenith è quello della notte della morte del protagonista Sico. Di ritorno a casa con la sua moto, si muove sull'asfalto bagnato dalla pioggia che ha investito Colleterno con il collo incassato tra le spalle per il freddo e per la strana sensazione che qualcosa di orrendo lo stia inseguendo in attesa di poterlo sopraffare. Il vecchio cimitero sulla collina incombe con le sue luci spettrali, la presenza della morte si fa sempre più densa. Sico perde il controllo della moto e finisce giù da una scarpata. La sua morte segna l'inizio delle nove ore della notte. Ogni ora un'anima appena morta raggiungerà Sico. Lui dovrà tornare indietro a prima della morte di ogni anima per poterla salvare, per poterne salvare più di quante ne possa perdere. Soltanto in questo modo potrà tornare alla vita con le nove anime.

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Le pareti cadevano a pezzi per l’umidità e scuri squarci di intonaco tumefatto si aprivano nell’alta volta sopra la mia testa. La luce dei lampi fotografava di tanto in tanto la stanza. La mia immagine appariva per un attimo nella grande specchiera di fronte. Ero seduto a una sedia di legno cigolante con gli scarponi poggiati sul tavolo, avevo una maglia nera pesante e un paio di jeans, aspettavo l'arrivo dei miei amici per la semifinale. Da un portacenere si innalzava il fumo di una sigaretta spenta alla meglio. Al telegiornale passava un servizio su un terremoto che aveva distrutto un’intera città da qualche parte in culo alla Russia. Il freddo era penetrato anche all’interno della casa, ce l'avevo nelle ossa, il freddo di una strana giornata di luglio che aveva spezzato quell’estate così lineare. Il vetro di una credenza rifletteva dallo schermo della televisione l'immagine di una scimmia in giacca e cravatta con un cappello da giullare sulla testa. I vecchi mobili, gonfi di anni trascorsi a resistere all’umidità, nascondevano in parte le marce pareti. La mia pelle sarebbe rimasta per sempre impregnata dall'odore di vecchio e di chiuso della casa dei nonni. Mia madre, il giorno dopo, avrebbe scoperto per l'ultima volta che ci ero stato, quando avrebbe annusato il mio cadavere.

Splendida fine.

Capitolo 2

Un piede puntato a terra si mosse, il tallone oscillò. Le nocche strisciarono nel fango, feci leva su un polso che non mi riusciva di girare, ma la fronte restò incollata al terreno. Mi tirai su. Lentamente. Trascinai gli scarponi verso la moto, la ruota davanti continuava a girare a vuoto con un cigolio incessante. Provai a rialzarla, ma non avevo forza. Iniziai a tossire, mentre indietreggiavo. Il sangue colava dalla faccia e dalla bocca, lunghe gocce si diluivano nel velo d’acqua steso in una pozzanghera.

Il silenzio si era fatto solido, come se ci fossero dei filtri o come se l'udito fosse stato compromesso dall'impatto. Il cervello sembrava essersi sganciato dal sostegno che lo reggeva fermo nella testa, i colori delle cose venivano fuori dai contorni, le linee si deformavano davanti ai miei occhi, gli oggetti intorno a me si muovevano mellifluamente, in maniera autonoma, persino sovrapponendosi.

Avvicinai lentamente un dito alla tempia, per rendermi conto dell’entità della ferita. Lo immersi nella morbida carne aperta e barcollai quando sfiorai il ruvido bordo tagliente, come di un dente spezzato, di un profondo spacco lungo il cranio. Ingoiai sangue. Macchie rosse diventavano nere e si allargavano tra i miei occhi e gli alberi, tra i miei occhi e il monastero in alto oltre il ponte distrutto, tra i miei occhi e la notte. Finché non oscurarono ogni cosa. Sul mio corpo si aprivano centinaia di ferite attraverso cui il buio penetrava come aria. Allungai un braccio per raggiungere il tronco di un albero davanti a me, ma quando infilai la mano nel buio, non era più dove avrebbe dovuto essere.

Iniziai a muovermi piano in avanti, con una mano alzata per trovare un punto di riferimento qualsiasi, ma ogni cosa giocava a starsene nascosta un centimetro oltre le mie dita. Tutto si era dissolto, la realtà non esisteva più. Era rimasto soltanto il freddo. Riuscivo a vedere le mie mani, le mie gambe, gli scarponi, ma intorno non c'era altro. Mi fermai, crollai col culo sul pavimento del buio. Mi passai le mani sulla faccia. C'era ancora.

Il propagarsi di un tonfo lontano fece vibrare il terreno sotto di me. Alzai la testa e mi guardai attorno. Qualcosa si muoveva sulla linea d'orizzonte alla mia destra con grande lentezza verso di me. Il buio non poteva oscurare neanche quell'immagine. Mi misi in piedi, mi voltai dall'altra parte e iniziai a camminare.

Dove stai andando? Qui non esiste una direzione.

Continuavo a guardarmi indietro per controllare la distanza che si allungava tra me e l’immagine in fondo al buio. Camminava così piano che dopo un po’ era scomparsa. Smisi di preoccuparmene, ma quando girai la testa in avanti, la rividi avanzare con la stessa pesantezza verso di me, come se le fossi andato incontro invece di distanziarla. Mi fermai. Mi girai in senso inverso e ripresi a camminare per un lungo tratto, ma successe la stessa cosa della prima volta. L’immagine mi seguì finché non fui abbastanza lontano, poi riapparve davanti a me, venendomi incontro.

Mi fermai di nuovo. Scelsi ancora un'altra traiettoria diversa e accelerai il passo. Ancora una volta il piccolo punto in luce si affievolì fino a non essere più visibile, soltanto per ricomparire nel nero davanti a me. Iniziai a correre nel vuoto, deviando ogni volta che vedevo l’immagine riapparire. Qualunque direzione prendessi, l’immagine tornava ad avanzare verso di me, come un riflesso in una serie di invisibili specchi che circondava il buio. Rallentai la corsa.

Non c'era un modo di fuggire o di nascondersi, potevo solo aspettare che la cosa che si muoveva nel buio mi raggiungesse. Tastai il terreno con una mano, mi misi a sedere, calai la testa tra le ginocchia e strinsi le braccia intorno alle gambe. I tonfi proseguirono, sempre con lo stesso ritmo, lento, ma continuo come l’ossessivo sgocciolare di un rubinetto che perde nella notte e prende una forma astratta all'interno di un sogno. Si avvicinavano senza che niente potesse fermarli. Non mi mossi, soltanto non riuscivo a smettere di tremare.

L'ultimo passo impattò contro la superficie qualche metro davanti a me e risalì lungo la colonna vertebrale. Un calore improvviso si diffuse sulla nuca quando la cosa emise un respiro. Un lungo lamento involontario venne fuori attraverso i miei denti digrignati. Sentivo una mole impressionante sospesa su di me. Oscillava piano a destra e sinistra, come se fosse in attesa di un mio movimento. Portai le dita della mano sinistra sulla tempia. La accarezzai delicatamente.

L'amalgama appiccicaticcio di sangue, carne e capelli che cercavo con i polpastrelli, non c'era. La ferita era scomparsa. Era tutto a posto, tutto pulito.

Questa non è la realtà.

Alzai lentamente la testa e spostai lo sguardo al di sopra delle ginocchia. Quattro enormi zampe di animale erano rivestite da una coltre di lunghi peli chiari. La pelle, di un rosa sporco, incrostata di melma e filamenti d’erba secca, era incisa da profonde rughe e cicatrici. Il collo mi diventò molle. Uno sconcertante grugno rosa espirava caldi sbuffi ritmati e rilasciava una bava arcuata giallastra. Davanti a me, un suino della taglia di un elefante sovrastava il buio. Lo guardavo senza riuscire a crederci, ma l'animale continuò a oscillare piano, storcendo di tanto in tanto la bocca per emettere un grugnito. I piccoli occhi pelosi mi osservavano.

Mi alzai con una calma irreale. L’enorme testa si mosse piano, attratta da qualcosa verso il basso, poi fece sobbalzare le orecchie leggere con uno schiocco di lingua e uno scatto improvviso di cui non sembrava capace. Abbassai lo sguardo. La mia mano era scomparsa nelle calde fauci fino al polso. Guardai le piccole pupille nere, lucide come se fossero di plastica, e tirai in maniera impercettibile il braccio. Era incastrato. Non feci in tempo a pensarlo che la testa del maiale scattò ancora in avanti di un po’. Dal gomito in giù, in un attimo, il braccio era tutto steso sul letto avvolgente di un quintale di lingua. Non capivo se dovermi preoccupare.

Piantai il palmo della mano sull’ovale umido del naso, infilai per sbaglio un dito in una narice e spinsi mentre tiravo il braccio incastrato più forte che potevo verso di me. Non si spostava di un millimetro. Continuai a fare forza e dare strattoni, cercai di afferrare e stringere qualcosa con la mano all’interno della bocca, ma il maiale restava impassibile. Aspettava che la smettessi. E quando mi fermai a riprendere fiato, con un altro scatto, mi avvolse la spalla, senza alcuno sforzo. Dovevo preoccuparmi.

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