«Tu ci hai chiamate».
«Io?».
Io le ho chiamate.
Ancora quella stupida voce nella testa. Mi guardai attorno.
«Nove anime» ricominciò la prima voce «raggiungeranno la collina, questa notte».
«Nove anime in bilico. Attraverseranno il confine e resteranno sospese».
«La tua essenza potrà cambiare gli eventi e salvarle, se saprai orientarti nel buio».
Il terreno riprese a tremare. Indietreggiai senza sapere dove direzionare lo sguardo e i piedi. Una base di piramide sormontata da una lunga e stretta torre dalle pareti devastate dal tempo venne fuori dal terreno da qualche parte a est, come era successo poco prima con le due braccia rivestite di rampicanti. Sulla facciata rivolta a noi, nove alte finestre ad arco erano in linea con la grande entrata alla base.
«Avrai nove ore».
«La torre resterà in attesa di ognuna delle anime».
«Fino al termine di questa notte».
«Finché non avrai fatto la tua ultima scelta».
«Ognuna delle vostre vite sarà restituita se salverai più anime di quante ne perderai».
«Nessuna delle vostre vite sarà restituita se perderai più anime di quante ne salverai».
«In un’unica sorte comune di cui sarai responsabile».
Si sollevò un silenzio attraversato da centinaia di sussurri che si prolungavano in echi ossessivi nella piccola valle.
«Non sono stato capace di salvare neppure la mia vita» dissi, indicando al di là del buio alle mie spalle. Ma i due pugni di rampicanti si stavano già richiudendo.
Mi ritrovai tra le dita la sigaretta che non avevo più acceso alla fine del corridoio. La guardai, la feci rotolare nel palmo. Non avevo più nessuna voglia di fumare, ma la accesi lo stesso.
La prima anima non aveva le sembianze di un’anima. Era un ragazzo lungo e magro con le spalle a spigoli. Portava una giacca e un paio di pantaloni grigio chiaro, una camicia bianca aperta sul collo e scarpe nere. Avanzava tra l'erba alta e rada con le ginocchia sollevate. Gli occhi castani dalle ciglia lunghe mi guardavano sopra un naso con la punta schiacciata sul volto rettangolare. La strana lucentezza della pelle la faceva sembrare vagamente plastificata.
«Pensavo che non avrei trovato nessuno qui. Sono venti minuti che cammino» disse. Fece altri due ampi passi e si fermò, allungò una mano «Ambrose Denitti. Designer di interni. Interni di lusso».
Il polso della camicia venne fuori dalla manica della giacca. Trattenne il fianco della stessa con l'altra mano.
«Che razza di situazione» dissi. Mi alzai da terra, dalla sterpaglia dove me n'ero stato seduto fino ad allora. Strinsi la mano davanti a me.
«Sico» dissi.
La fronte dell'anima si corrugò. Tirai un'ultima boccata dalla terza o quarta sigaretta da quando ero arrivato, prima di schiacciarla sotto la punta dello scarpone. Le spalle appuntite traslarono di lato per farmi spazio. Mi allungai verso il sentiero.
«Ho l'auto che si è fermata sulla statale. Non so che cosa le sia preso, non mi ha mai dato problemi. Per quello che l’ho pagata, c’è da non crederci. A dire il vero devo essere uscito un po' fuori strada» fece frusciare la giacca, allungando un braccio all'indietro mentre mi camminava accanto «Ho provato a contattare il soccorso stradale, ma non c'è campo» controllò il display di un grosso cellulare, ticchettandoci sopra con due dita «Non è che mi faresti provare con il tuo?» mi puntò con l’antenna del telefono.
Scossi la testa e alzai le spalle.
L’aria intorno a noi era cambiata, un vento leggero si era alzato, mentre nel cielo le nuvole si assottigliavano piano.
«Posso pagarti la telefonata» disse l’anima, allargando le braccia.
Mi fermai, mi girai verso di lui «Non ho un telefono» dissi.
«Va bene, va bene. Facciamo così: vieni con me fino alla macchina e resta almeno a controllarla mentre io cerco aiuto».
Feci ancora no con la testa.
«Senti, sei l'unico che può aiutarmi. Non vedo nessun altro qui,» fece un giro completo su se stesso «ho un Porsche Boxster grigio metallizzato con tettuccio apribile automatico e interni in pelle rossa immatricolato sei mesi fa, fermo fuori strada a non so quanti chilometri. Che dici, vogliamo lasciarlo lì incustodito per molto?».
Ripresi a camminare, il ragazzo mi seguì. Scavalcammo l'erba alta ai bordi del sentiero per avvicinarci alle due braccia di rampicanti. Gli ultimi steli di gramigna gli finirono dentro i pantaloni, scostò la gamba con rabbia e assestò un calcio a un cespuglio rinsecchito, sradicandolo. Bestemmiò qualcosa tra sé e sé.
«Domani sono pieno di appuntamenti, devo chiudere due contratti importanti. Non posso stare qui a perdere tempo con te, ma mi serve il tuo aiuto» si fermò.
Una mano lanciò il telefono all’altra, scivolò sotto la stoffa della giacca e cavò un portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo aprì con il pollice. Tirò fuori con l’indice e il medio un pezzo da cinquanta e lo sventolò verso di me. Il riflesso bianco spalmato sulla punta piatta del naso lo faceva sembrare ridicolo.
«Prendili, dài». Credeva di essere ancora vivo.
La morte è un concetto relativo. Basta solo andarci oltre.
«Ti è mai capitato» dissi «di pensare a qualcosa che non abbia a che fare con la tua vita?».
«Che cosa vuoi dire?».
«Che dovresti pensare di rinunciare ai tuoi appuntamenti».
«Dici che andrà via tutta la notte per tirare fuori la macchina?» gettò il pollice alle sue spalle. La banconota scivolò di nuovo nell’apertura di pelle. La mano scomparve dietro il suo culo.
«Dico che adesso è tardi per pensare a queste cose».
«Dici?».
«Dico che sei morto».
«Morto? Che cosa vuoi dire con morto?».
«Tutto quel buio l’hai visto? L’erba che comincia di punto in bianco nel vuoto? Questa strana luce turchese, queste due braccia enormi che vengono fuori dal terreno?» poggiai una mano sul braccio più vicino, appena raggiunto «Ti sembra la vita, questa? Ti sembra la realtà?».
Si allontanò di qualche passo, si puntò addosso le dita di entrambe le mani.
«E io? Ti sembro uno che è morto? Non lo vedi che sto in piedi? Sono solo uscito fuori strada. Certo, devo aver tamponato qualcosa, adesso non ricordo. Ma poi ho camminato fino a qui» quasi urlò.
I due pugni giganti, con le foglie prese da un leggero fremito, iniziarono a schiudersi sopra di noi. Ci spostammo più indietro. Le ragazze si sollevarono, Ambrose si ritrasse alla loro vista. La ragazza vestita di bianco gli accennò un invito ad avvicinarsi. Il suo viso continuava a mutare. Adesso sembrava quello di una adolescente e anche il suo corpo non era più quello di una donna, le braccia e le gambe si erano fatte più esili e i seni neri, che erano stati sodi, adesso erano appena accennati.
«Che cosa ci fanno nude? Chi sono?» Ambrose si rivolse a me.
Alzai le spalle.
«Ambrose» iniziò la voce della ragazza vestita di nero «Hai ventisei anni. Li hai attraversati tutti senza un solo piccolo dolore e senza un solo piccolo affetto. Non hai mai conosciuto sacrifici o rinunce. Ti sei ritrovato a ventitré anni a capo dell’azienda di tuo padre, senza un percorso di studi, senza alcun merito, ma per diritto di discendenza. Nei giorni della sua morte, non provavi niente. Soltanto la voglia irrefrenabile di prendere possesso dei tuoi nuovi beni per vivere una vita dinamica, in continuo movimento e in continua mutazione. Hai iniziato a cambiare auto e donne come un bambino che fa presto a dimenticare un gioco vecchio per uno nuovo. La tua vita è stata una corsa continua lontano dalla verità che ti sembrava così noiosa e statica. Una vita di continue bugie. Dette a chi? Dette a te stesso. Che ne pensi, hai avuto una morte abbastanza dinamica?».
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