Saccinto Saccinto - Zenith

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Zenith: краткое содержание, описание и аннотация

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Zenith è la storia di un ragazzo che attraversa la morte ed è costretto a salvare nove anime per poter tornare alla vita.
Lo sfondo dark in cui si delinea Zenith è quello della notte della morte del protagonista Sico. Di ritorno a casa con la sua moto, si muove sull'asfalto bagnato dalla pioggia che ha investito Colleterno con il collo incassato tra le spalle per il freddo e per la strana sensazione che qualcosa di orrendo lo stia inseguendo in attesa di poterlo sopraffare. Il vecchio cimitero sulla collina incombe con le sue luci spettrali, la presenza della morte si fa sempre più densa. Sico perde il controllo della moto e finisce giù da una scarpata. La sua morte segna l'inizio delle nove ore della notte. Ogni ora un'anima appena morta raggiungerà Sico. Lui dovrà tornare indietro a prima della morte di ogni anima per poterla salvare, per poterne salvare più di quante ne possa perdere. Soltanto in questo modo potrà tornare alla vita con le nove anime.

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La testa del maiale si sollevò lentamente. Ruotai il corpo intorno alla giuntura per seguirne il movimento ed evitare che si spezzasse e mi ritrovai con la faccia a pochi centimetri dal muso rosa. La bava giallastra si allungava sotto la mia ascella, ondeggiava e sfilacciava sul pavimento. Trattenni il respiro e smisi di dibattermi. Il maiale sembrò non avere atteso altro, spalancò le fauci e, con l’ostinata lentezza di un pachiderma, mi avviluppò la testa e le spalle.

La mia faccia si compresse sul fondo delle pareti umide della cavità orale, il mio corpo scivolò avanti e indietro risucchiato dalla gola. Un millimetro alla volta, il condotto si allargò, si adattò a me come una guaina di gomma. Iniziai a scendere giù, nel fondo dell’esofago. Una serie indefinita di pugni mi premevano addosso dappertutto e mi spingevano avanti nel condotto sempre più stretto e buio. Una membrana elastica come una busta di plastica aderì alla mia faccia impedendomi di respirare finché non si strappò e mi ritrovai affacciato alla bocca dello stomaco. Cercai un appiglio sui bordi scivolosi, non riuscii a trovarlo e slittai giù, in caduta libera.

Dal nulla si diffuse intorno a me la luce di un cielo disseminato di grandi nuvole bianche. Un orizzonte si assestava in lontananza con i riflessi d’oro di un’alba o di un tramonto. Un freddo flusso d’aria mi investì e mi spinse la felpa sotto il collo, lasciandomi a pancia scoperta nell’assordante fischiare del vento. Cercai di ricacciarla al suo posto per guardare in basso, ma non riuscii a vedere niente finché non venni fuori dall’ultima nuvola.

Mi sfracellai con un boato su un piano solido. Attorno a me si sollevò un immenso sbuffo di polvere. Restai immobile in una concentrazione di tempo infinita, in attesa che la coscienza si spegnesse definitivamente. Non provavo alcun dolore. Sentivo le mani e i piedi enormemente distanti. La mente si era frantumata in migliaia di schegge, ma la coscienza persisteva come un’ostinazione del dormiveglia.

Iniziai lentamente a radunare i pezzi rotti verso il centro del corpo. Provai a muovermi quando mi sembrò di avere di nuovo una consistenza. Mi alzai come un manichino scomposto, un braccio pendeva dal lato sbagliato del gomito, il collo aveva un’inclinazione innaturale, i jeans sembravano contenere un accumulo di frammenti. Le mani, dilatate fino a sembrare finte, si riassestarono sotto i miei occhi, le ginocchia scattarono in linea. Nel cranio e nella mandibola un formicolio delle ossa mi sistemò il volto.

Quando la nuvola di polvere si posò, dalla terrazza dove mi trovavo vidi una città in rovina che si estendeva, vuota e silenziosa, sotto di me. Era fatta di ammassi di case costruite una sopra l’altra in assurde arrampicate verso il cielo, talmente incastrate tra loro da sembrare inaccessibili. Mi girai intorno. La terrazza su cui ero finito era un quadrato senza vie d’uscita a mezza altezza su uno di quegli ammassi di case. Mi appoggiai al parapetto e guardai in alto. Uno squarcio di azzurro filtrava attraverso una finestra dietro cui non c’erano stanze né tetti. Il centro di un pavimento in forte pendenza a quadri larghi gialli e neri si trasformava senza motivo in un tetto di tegole. Una scalinata partiva da un davanzale per finire nel bel mezzo di un muro. Sulla stessa parete, un po’ più in alto, c’era una saracinesca grigia aperta a metà che nascondeva in parte uno specchio. Niente aveva senso. Era come se tutto fosse stato costruito senza l’intenzione di essere utilizzato, persino il grande ponte a campata unica che saltava da una parte all’altra l'intera città.

Sentii una leggera vibrazione sotto la pianta del piede. Ritirai lo sguardo in basso sulla linea all’angolo tra il pavimento e il parapetto e restai in attesa finché non vibrò ancora, assorbendo il propagarsi di un colpo battuto a terra in lontananza. Le vibrazioni si fecero sempre più forti fino a diventare veri e propri terremoti momentanei. Cercavo di bilanciarmi con movimenti in circolo dei piedi, stare troppo vicino al parapetto mi dava la sensazione di cadere di sotto. In un'apertura su un altissimo campanile dal tetto a mongolfiera, un’enorme campana dorata iniziò ad oscillare. Si inclinò espandendo un rintocco che echeggiò e si compattò contro i muri delle case. Dopo alcuni secondi ci fu un altro rintocco. Suonava a morto.

Al di sopra dell’insieme di terrazze costruito in fondo alla città, le lunghe corna di una giraffa salivano e scendevano al ritmo dei terremoti, sormontando una testa di dimensioni spaventose che passeggiò in parata sul collo lungo e dritto. Il corpo gonfio come una cornamusa era sorretto da esili e altissime gambe sbilenche che, impattando contro il terreno, propagavano le onde d’urto da cui erano investiti gli edifici. Tutto iniziò a tremare sotto i miei scarponi. Il terzo rintocco della campana fu scavalcato dal boato delle torri e dei palazzi che venivano giù, di lato, come se una mano gigante li stesse spingendo. Dopo poco la mano raggiunse anche l’insieme di case su cui mi trovavo. Una profonda crepa si ramificò in diagonale sul campanile. La parte superiore si inclinò trascinandosi la campana che rintoccò contro il muro.

Ripresi a cadere velocemente verso il basso. Le ultime cose che vidi furono l’alba o il tramonto che fluiva via, lontano, in un fascio di colori confusi tra i banchi di polvere che si alzavano. Uno sciabordio di acque si modulò sul fragore della città che crollava. Cadevo verso un’estesa superficie di acqua verde scuro che si intravedeva sotto uno strato di vapore. Nella penombra verdastra tutto intorno, ad altezze differenti, le entrate di alcune grotte si protendevano dalla parete rocciosa come bocche con denti di stalattiti e stalagmiti.

I piedi ruppero la superficie dell'acqua e mi trascinarono giù fino a sfiorare il fondo limaccioso che si intorbidì. Risalii lentamente agitando le braccia e mi tenni a galla muovendo le gambe. Da una sponda lontana qualcosa aveva preso la mia direzione, la vedevo emergere e immergersi in mezzo al vapore. Mi ripulii gli occhi con una mano, sputai fuori dai denti l'acqua entrata in bocca. Tra i bianchi addensamenti fumosi che ruotavano in circolo sullo stagno, il muso striato di alghe e limo di una gigantesca rana incideva la superficie delle acque, avvicinandosi. Sopra la sua schiena, una scimmia dal busto dritto la cavalcava con lo sguardo profondo di un marinaio di vedetta in attesa di scorgere terra.

La rana deviò verso una sponda a pochi metri da me, si tenne a un bordo con le zampe e mi guardò. La scimmia girò lentamente la testa e tese una mano. I suoi occhi sembravano occhi umani, tra le guance allargate in due batuffoli di peli bianchi. Nuotai verso di loro, afferrai la mano della scimmia e mi arrampicai con una mano alla parete melmosa e con l'altra al ginocchio della rana. Mi misi seduto dietro la scimmia e immersi le mani nella morbida pelliccia intorno alla sua vita. La rana abbandonò il bordo e si rimise in acqua. Incantai gli occhi sui peli sulla testa della scimmia che ogni tanto si girava a controllare che stessi ancora al mio posto. Percorremmo in silenzio lo stagno respirando vapore fino a una sponda lontana a cui la rana si aggrappò.

Mi lasciai andare all'indietro, scivolai in acqua e allargai le braccia per galleggiare. La rana venne giù dal bordo. Allungò le zampe posteriori e anteriori come se fosse morta di colpo e si inabissò, fino a che la superficie non raggiunse le spalle della scimmia. Poi l'acqua le sommerse del tutto. Immersi una mano sotto la superficie e la agitai, riuscii a intrecciare le dita tra i peli del volto della scimmia, cercai di scendere fino alle braccia, per prenderle una mano, ma ormai era andata giù. Galleggiai fino a riva e affondai i gomiti nella melma. Salii sul bordo, mi stesi a pancia in su, con le gambe ancora immerse in acqua. Restai a respirare per un po', poi mi rigirai per sedermi sulla sponda.

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