Mai nervosa quanto mi rendeva il mio vestito. E la scarpa. Solo una, visto che l’altro piede era ancora alloggiato nell’ingessatura. Ma il tacco a spillo ancorato al mio piede solo da un laccetto di seta non mi avrebbe affatto aiutata a zampettare in giro.
«Non verrò mai più da nessuna parte con te, se mi toccherà di nuovo farmi trattare da Alice come Barbie-cavia-da-laboratorio», brontolai. Avevo trascorso quasi l’intera giornata nel bagno di Alice, tanto grande da potercisi perdere, vittima inerme di lei che giocava alla parrucchiera e alla truccatrice. Ogni volta che mi lamentavo o le suggerivo qualcosa, mi pregava, visto che non aveva memoria del suo essere stata umana, di non rovinarle quel divertimento. Poi mi aveva costretta a indossare il più ridicolo dei vestiti: blu scuro, pieno di trine e senza spalline, con un sacco di etichette francesi che non capivo. Si addiceva più a una passerella di moda che a Forks. Il nostro abbigliamento formale non prometteva niente di buono, di questo ero sicura. A meno che... ma avevo paura di tradurre i miei sospetti in parole o in pensieri.
A quel punto fui distratta dallo squillo di un telefono. Edward estrasse il cellulare da una tasca della giacca e per un istante osservò il numero sul display.
«Pronto, Charlie», disse sospettoso.
«Charlie?».
Charlie era diventato un po’... difficile, da quando ero tornata a Forks. La sua reazione alla mia brutta esperienza si era scissa in due compartimenti stagni. Da una parte, la sua gratitudine per Carlisle sfiorava l’adorazione. Dall’altro, era testardamente convinto che fosse colpa di Edward, perché, se non fosse stato per lui, non me ne sarei mai e poi mai andata di casa. Edward, da par suo, era tutt’altro che in disaccordo. A questo punto, dovevo obbedire a regole del tutto nuove: coprifuoco... e orari di visita.
Alle parole di Charlie Edward strabuzzò gli occhi incredulo, poi scoppiò in un gran sorriso.
«Sta scherzando!».
«Che c’è?», chiesi io.
Non mi ascoltò. «Posso parlargli io?», suggerì, palesemente solleticato dall’idea. Attese qualche secondo.
«Ciao Tyler, sono Edward Cullen». All’apparenza era molto amichevole. Ma ormai conoscevo abbastanza bene la sua voce da cogliervi un vago tono di minaccia. Che ci faceva Tyler a casa mia? Iniziai a intuire la terribile verità. Osservai ancora il vestito fuori luogo in cui Alice mi aveva costretta a entrare.
«Mi dispiace che ci sia stato un fraintendimento, ma Bella è occupata, stasera». Poi cambiò tono e si fece apertamente minaccioso: «Anzi, per la verità è occupata tutte le sere, per chiunque, escluso il sottoscritto. Senza offesa. Spiacente se la tua serata non andrà come speravi». Non sembrava affatto dispiaciuto. Fece scattare lo sportellino del telefono e chiuse la comunicazione, ridendo soddisfatto.
Arrossii di rabbia. Sentivo già lacrime di irritazione pronte a salire.
Lui mi guardò sorpreso: «Credi che abbia esagerato un po’? Non volevo essere offensivo riguardo a te».
Lo ignorai.
«Mi stai portando al ballo di fine anno!», strillai.
Era un’ovvietà tale da mettermi in imbarazzo. Se ci avessi fatto caso, avrei notato la data sui manifesti che tappezzavano la scuola. Ma ero convinta che nemmeno per scherzo mi avrebbe fatto subire un’umiliazione del genere. Non mi conosceva?
Di sicuro non si aspettava una reazione tanto energica. Mi guardò serio, a denti stretti: «Non fare la difficile, Bella».
Lanciai uno sguardo al finestrino: eravamo già a metà strada.
«Perché mi stai facendo questo?», chiesi, terrorizzata.
Lui indicò il suo smoking. «Sinceramente, Bella, dove credevi che ti volessi portare?».
Ero mortificata. Prima di tutto, perché l’evidenza mi era sfuggita. E poi, perché i vaghi sospetti - speranze, in realtà - che avevo avuto nel pomeriggio, mentre Alice tentava di trasformarmi in una reginetta di bellezza, erano lontanissimi dal vero. Le mie speranze velate di paura, a quel punto, sembravano un’idiozia.
Avevo intuito che fosse un’occasione speciale. Ma non il ballo! Era l’ultimo dei miei pensieri.
Sentii lacrime di rabbia scorrermi sulle guance. Ricordai con fastidio che, contro le mie abitudini, avevo il mascara. Mi strofinai subito sotto gli occhi per evitare di macchiarmi. La mano non era sporca: la saggia Alice aveva scelto cosmetici resistenti all’acqua.
«È ridicolo. Perché piangi?», chiese irritato.
«Perché mi hai fatta arrabbiare!».
«Bella». Mi colpì con tutta la forza dei suoi occhi dorati e ardenti.
«Cosa?», mormorai, turbata.
«Assecondami. Per piacere».
Il suo sguardo aveva sciolto tutta la mia furia. Era impossibile litigare, quando barava in quel modo. Mi arresi, tutt’altro che di buon grado.
«Bene», mormorai, incapace di squadrarlo come mi sarebbe piaciuto. «Te la do vinta. Ma vedrai. È un bel po’ che non m’imbatto in una vera disgrazia. Come minimo mi romperò l’altra gamba. Guarda la scarpa! È una trappola mortale!». Gli mostrai la gamba buona per convincerlo.
«Mmm». La fissò molto più a lungo del necessario. «Stasera voglio ringraziare Alice, ricordamelo».
«Ci sarà anche lei?». L’idea mi dava un pò di sollievo.
«Assieme a Jasper, Emmett... e Rosalie».
Il sollievo svanì. Non avevo fatto il minimo progresso con Rosalie, benché i rapporti con il suo quasi marito fossero più che buoni. Emmett apprezzava la mia presenza: lo divertivo, forse per le mie bizzarre reazioni umane... o forse perché trovava buffo che inciampassi in continuazione. Rosalie si comportava come se non esistessi. Scrollai il capo come per indirizzare i miei pensieri altrove e cambiai discorso.
«Charlie è al corrente di questo?» chiesi, diffidente.
«Certo». Poi soffocò una risata: «A quanto pare, solo Tyler non sapeva nulla».
Ero allibita. Era incredibile che Tyler non avesse smesso di illudersi, nonostante tutto. A scuola, lontani dall’interferenza di Charlie, io ed Edward eravamo inseparabili, tranne che nelle rare giornate di sole.
Eccoci arrivati. La cabriolet rossa di Rosalie spiccava nel parcheggio. Le nuvole erano sottili quella sera e lasciavano trapelare qualche timido raggio di sole a occidente.
Edward scese dall’auto e venne ad aprirmi la portiera. Mi offrì la mano.
Rimasi testardamente seduta al mio posto, a braccia conserte, beandomi in segreto della mia vanità. Il parcheggio era affollato di persone in abito da sera: tutti testimoni. Edward non avrebbe potuto estrarmi dall’auto con la forza, come non avrebbe esitato a fare se fossimo stati soli.
Sospirò: «Di fronte a un assassino sei coraggiosa come un leone, ma basta che qualcuno parli di ballare...». Scosse il capo.
Trasalii. Ballare.
«Bella, ti terrò lontana da tutti i pericoli, compresa te stessa. Non ti mollerò un attimo, lo prometto».
Ci pensai sopra, e subito mi sentii molto meglio. Me lo si leggeva in faccia.
«Forza, adesso», disse gentile. «Non sarà così male». Si chinò e con un braccio mi cinse la vita. Afferrai l’altra mano, e mi lasciai sollevare per uscire dall’auto.
Mi aiutò a zoppicare fino all’ingresso della scuola, tenendomi stretta.
A Phoenix, le feste di fine anno scolastico avvenivano nelle sale da ballo degli alberghi. Il ballo di Forks era in palestra, ovvio. Probabilmente era l’unico locale in città che fosse grande a sufficienza. Quando entrammo, mi scappò un risolino. C’erano veri arcobaleni di palloncini e ghirlande attorcigliate di carta crespa sulle pareti.
«Sembra l’inizio di un film dell’orrore», dissi, ridendo sotto i baffi.
«Be’», mormorò Edward mentre ci avvicinavamo a fatica al tavolo che fungeva da biglietteria - lui reggeva quasi tutto il mio peso, ma ero comunque costretta a dondolare il piede per trascinarmi in avanti -, «in effetti i vampiri non mancano».
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