«Poco importa. Tre giorni. Cosa vuoi che siano».
Edward reagì con una smorfia alle mie parole: dimostravo di essere più informata di quanto lui avrebbe desiderato. Lo vidi reprimere la rabbia e tornare a riflettere.
«E Charlie?», chiese all’improvviso. «Renée?».
Restai in silenzio, cercavo disperatamente una risposta, e i minuti passavano. Aprii la bocca, senza emettere suono. La richiusi. Lui aspettava, con espressione trionfante, perché sapeva che non avevo una risposta degna di questo nome.
«Senti, nemmeno quello è un problema», bofonchiai infine; il mio tono di voce era poco convincente, come ogni volta che mentivo. «Renée ha sempre scelto ciò che le sembrava più giusto; non si opporrebbe se mi comportassi nello stesso modo. E Charlie si riprenderebbe, è flessibile, e si era abituato a stare da solo. Non posso badare a loro per sempre. Io voglio vivere la mia vita».
«Appunto. E non sarò io a farla terminare».
«Se aspettavi che fossi sul letto di morte, sappi che ci sono stata eccome!».
«Sì, però ti rimetterai».
Respirai a fondo per tranquillizzarmi, senza badare alla fitta nelle costole. Lo fissai, e lui mi restituì lo sguardo. La sua espressione non ammetteva compromessi.
«Invece no», risposi, piano.
Aggrottò le sopracciglia. «Certo che sì. Al massimo ti resteranno un paio di cicatrici...».
«Ti sbagli. Morirò».
«Sul serio, Bella». Si era innervosito. «Tra qualche giorno ti dimetteranno. Due settimane al massimo».
Lo inchiodai con uno sguardo: «Forse non morirò subito... ma prima o poi succederà. Ogni giorno, ogni minuto, quel momento si avvicina. E diventerò vecchia » .
Si rabbuiò quando capì cosa intendevo, chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «È così che succederà. Come dovrebbe succedere. Come sarebbe successo se io non fossi esistito... e io non sarei dovuto esistere » .
Sbuffai. Lui aprì gli occhi, sorpreso.
«Che stupidaggine. Mi sembra di sentire il vincitore di una lotteria che, dopo avere riscosso il premio, dice: “Ehi, torniamo indietro alla normalità, è meglio così”. Non me la dai a bere, sai».
«Sono tutt’altro che il premio di una lotteria».
«È vero. Sei molto meglio».
Alzò gli occhi e strinse le labbra. «Bella, non voglio più parlarne. Mi rifiuto di condannarti a un’eternità di notti e buio, punto e basta».
«Se pensi che possa finire qui, vuol dire che non mi conosci bene. Non sei l’unico vampiro che conosco». Il mio era un avvertimento.
I suoi occhi ridiventarono neri. «Alice non oserebbe».
E per un istante mi spaventò a tal punto da essere costretta a credergli: non riuscivo a immaginare nessuno tanto coraggioso da mettersi contro di lui.
«Alice ha già visto tutto, vero? Per questo ce l’hai con lei. Sa che un giorno... diventerò come te».
«Si sbaglia. Se è per questo, ti ha anche vista morta, ma non è accaduto».
«Per quel che mi riguarda, non scommetterò mai contro di lei».
Ci squadrammo a lungo. Il silenzio era rotto soltanto dal ronzio delle macchine, dai bip , dal gocciolare della flebo e dai rintocchi dell’orologio a muro. Finalmente, il suo viso si rilassò.
«Dunque la conclusione è...?», domandai.
Lui sorrise amaro. «Mi sembra che si chiami impasse».
Feci un sospiro ed emisi un gemito di dolore.
«Come ti senti?», chiese Edward, lanciando un’occhiata verso l’interfono.
«Bene». Mentivo.
«Non ti credo», rispose lui, delicato.
«Non ho intenzione di rimettermi a dormire».
«Hai bisogno di riposo. Tutto questo discutere non ti fa bene».
«Allora arrenditi».
«Bel colpo». Schiacciò l’interruttore.
«No!».
Non mi ascoltava.
«Sì?», gracchiò l’altoparlante dal muro.
«Credo che siamo pronti per un’altra dose di tranquillanti», disse Edward calmo, ignorando la mia espressione infuriata.
«Mando un’infermiera». La voce sembrava molto annoiata.
«Non li prendo».
Lui guardò il sacchetto di liquido che penzolava sopra il mio letto. «Non credo che ti chiederanno di ingoiare nulla».
Il mio cuore iniziò ad accelerare. Vide la paura nei miei occhi e sbuffò, spazientito.
«Bella, tu stai male. Hai bisogno di rilassarti per guarire. Perché sei così ostinata? Non serviranno altri aghi né cose del genere».
«Non ho paura degli aghi», mormorai, «ho paura di chiudere gli occhi».
Lui sfoderò il suo sorriso sghembo e mi prese la testa tra le mani. «Ti ho detto che non andrò da nessuna parte. Non avere paura. Fino a quando lo vorrai, io starò qui».
Sorrisi, ignorando il dolore nelle guance: «Stai parlando dell’eternità, lo sai».
«Oh, te la farai passare... è soltanto una cotta».
Scossi la testa incredula, e mi vennero le vertigini. «Quando Renée se l’è bevuta ci sono rimasta quasi male. Sai bene che non è così».
«È il bello di essere umani», rispose lui. «Le cose cambiano».
Socchiusi gli occhi: «Non trattenere il respiro, mentre aspetti che accada».
Quando entrò l’infermiera, con la siringa in mano, Edward rideva.
«Mi scusi», gli disse lei brusca.
Lui si alzò, attraversò la stanza e si appoggiò al muro. Incrociò le braccia in attesa. Io non gli staccavo gli occhi di dosso, ancora in apprensione. Lui ricambiava con uno sguardo rilassato.
«Ecco fatto, cara», disse l’infermiera sorridente, mentre iniettava il medicinale nel tubo. «Adesso starai meglio».
«Grazie», bofonchiai senza entusiasmo. L’effetto fu immediato. Sentii subito il torpore nelle vene.
«Così dovrebbe andare», mormorò l’infermiera, mentre le mie palpebre cedevano.
Capii che se ne era andata quando qualcosa di freddo e liscio mi sfiorò le guance.
«Resta», biascicai.
«Si, te lo prometto». La sua voce era bellissima, come una ninna nanna. «Come ho detto, finché lo desideri... finché è la cosa migliore per te».
Cercai di scuotere la testa, ma era troppo pesante. «... ’n è la stessa cosa», farfugliai.
Lui rise. «Non preoccuparti di questo adesso, Bella. Possiamo ricominciare a discutere quando ti svegli».
Sorrisi, forse. «...’a bene».
Sentii le sue labbra vicino all’orecchio.
«Ti amo», sussurrò.
«Anch’io».
«Lo so», e rise, sottovoce.
Voltai la testa lentamente... in cerca. Sapeva di cosa. Le sue labbra sfiorarono le mie, con delicatezza.
«Grazie», mormorai.
«Di niente».
Non ero più tanto presente. Combattevo stancamente contro lo stordimento. Mi restava una sola cosa da dirgli.
«Edward?». Pronunciare il suo nome correttamente era una faticaccia.
«Sì?».
«Io scommetto su Alice».
E la notte si chiuse su di me.
Edward mi aiutò a salire sulla sua auto, attento a non rovinare gli svolazzi di seta e chiffon del mio vestito, i fiori che aveva appena appuntato sui miei riccioli acconciati alla perfezione e l’ingombrante ingessatura alla gamba. Ignorò la mia espressione scocciata.
Dopo avermi sistemata sul sedile, si accomodò al posto di guida e fece retromarcia sul viale lungo e stretto.
«Posso sapere quando ti prenderai la briga di rivelarmi cosa sta succedendo?», chiesi, scontrosa. Odiavo sinceramente le sorprese. E lui lo sapeva.
«È assurdo che tu non abbia ancora capito». Ridacchiava di un riso beffardo che mi tolse il respiro. Mi sarei mai abituata a tutta quella perfezione?
«Ti ho informato del fatto che sei molto carino, vero?».
«Sì». Sorrise ancora. Non l’avevo mai visto vestito di nero, e il contrasto dell’abito con la carnagione pallida rendeva la sua bellezza assolutamente surreale. Non potevo negarlo, benché il fatto che indossasse uno smoking mi rendesse molto nervosa.
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