Stephenie Meyer - Twilight

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Twilight: краткое содержание, описание и аннотация

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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Quando Charlie tornò a casa, l’odore del peperoncino verde lo insospettì. Non potevo dargli torto - il posto più vicino in cui mangiare cibo messicano commestibile era probabilmente la California del Sud. Ma in fin dei conti era un poliziotto, per quanto di un commissariato di provincia, perciò fu abbastanza coraggioso da dare il primo morso. Sembrò gradire. Era divertente vedere che iniziava a fidarsi delle mie doti culinarie.

«Papà?», chiesi, quasi alla fine della cena.

«Dimmi, Bella».

«Ehm, volevo solo dirti che sabato prossimo passerò la giornata a Seattle... se per te non è un problema...». Non volevo chiedere il permesso - sarebbe stato un cattivo precedente - ma non volevo essere maleducata, e mi salvai in extremis.

«Perché?». Sembrava sorpreso, incapace di immaginare cosa potesse offrire Seattle rispetto a Forks.

«Be’, vorrei comprare qualche libro - qui la biblioteca non è molto fornita - e magari fare un po’ di shopping». Avevo più soldi di quanti fossi abituata a maneggiare, dal momento che, grazie a Charlie, non avevo dovuto pagare l’auto. Non che la benzina per far circolare il pick-up costasse poco, comunque.

«Il pick-up non fa tanti chilometri con un pieno», disse lui, facendo eco ai miei pensieri.

«Lo so, mi fermerò a Montesano e a Olympia... magari anche a Tacoma, se ce ne sarà bisogno».

«Ci vai da sola?», chiese lui, e non riuscivo a capire se sospettasse la presenza di un fidanzato segreto o fosse soltanto preoccupato che avessi problemi con l’auto.

«Sì».

«Seattle è una città grande: potresti perderti».

«Papà, Phoenix è cinque volte Seattle, e sono in grado di leggere una cartina, perciò non preoccuparti».

«Vuoi che venga con te?».

Cercai di nascondere il mio orrore con un po’ di furbizia.

«Va bene, ma considera che potrei passare la giornata tra un camerino e l’altro. Ci sarà da annoiarsi».

«Ah, allora non fa niente». La prospettiva di starsene seduto ad aspettare in un negozio di abbigliamento femminile gli aveva fatto cambiare idea all’istante.

«Grazie». Gli rivolsi un sorriso.

«Tornerai in tempo per il ballo?».

Grrr. Solo in una città cosi piccola i padri conoscono la data del ballo di una scuola superiore.

«No. Io non ballo, papà». Nessuno come lui poteva capirmi: i problemi di equilibrio non li avevo ereditati da mia madre.

E infatti capì. «Oh, d’accordo».

Il mattino dopo, arrivando a scuola, decisi di parcheggiare il più lontano possibile dalla Volvo. Non intendevo sottopormi a una tentazione cui avrei potuto cedere, avrei rischiato di dovergli rimborsare un’auto nuova. Scendendo dal pick-up mi feci sfuggire di mano la chiave, che cadde dentro una pozzanghera, ai miei piedi. Mi chinai a riprenderla, ma una mano bianca spuntò dal nulla e l’afferrò per prima. Mi alzai di scatto. Edward Cullen era a pochi centimetri da me, appoggiato al pick-up come se niente fosse.

«Ma come fai?», chiesi io, stupita e irritata.

«Come faccio cosa?». Giocherellava con la chiave, la faceva dondolare appesa a un capo. Mi allungai a prenderla, e la lasciò cadere nel palmo della mia mano.

«Ad apparire dal nulla».

«Bella, non è colpa mia se tu sei straordinariamente distratta». La sua voce era tranquilla come al solito, vellutata, smorzata.

Osservai torva il suo viso perfetto. Gli occhi quella mattina erano di nuovo chiari, di un miele dorato e intenso. Fui costretta ad abbassare lo sguardo per riordinare i miei pensieri confusi.

«Perché l’ingorgo, ieri sera?», chiesi, senza guardarlo. «Pensavo avessi deciso di fingere che non esisto, non di irritarmi a morte».

«L’ho fatto per Tyler. Dovevo concedergli una possibilità». Rise sotto i baffi.

«Razza di...», rantolai. Non riuscivo a pensare a un aggettivo abbastanza brutto. Sentivo una tale vampa d’ira da poterlo squagliare, ma più mi innervosivo, più sembrava divertito.

«E non sto fingendo che tu non esista», continuò.

«Allora hai deciso di irritarmi a morte, visto che il furgoncino di Tyler non è riuscito a farmi fuori?».

I suoi occhi bronzei si illuminarono di rabbia. Le labbra gli si irrigidirono, altro segno che il buonumore se n’era andato.

«Bella, sei totalmente assurda», disse, la voce bassa e fredda.

Mi prudevano le mani: avevo un gran desiderio di picchiare qualcuno. Ero sorpresa di me stessa. Non ero mai stata una persona violenta. Gli voltai le spalle e feci per andarmene.

«Aspetta», disse lui. Continuavo a camminare, sbattendo con collera i piedi nell’acqua. Ma lui mi era accanto, teneva il mio passo senza fatica.

«Scusa se sono stato maleducato», disse, senza smettere di camminare. Io lo ignoravo. «Non dico che non sia vero», continuò, «ma è stato maleducato dirtelo, ecco».

«Perché non mi lasci stare?», bofonchiai io.

«Volevo chiederti una cosa, ma mi hai fatto perdere il filo del discorso», sghignazzò lui. Sembrava aver recuperato il buonumore.

«Soffri di disordini da personalità multipla?», chiesi io, rigida.

«Non sviarmi un’altra volta».

Sbuffai. «Va bene. Cosa vuoi?».

«Mi chiedevo se, sabato prossimo... hai presente, il giorno del ballo di primavera...».

«Mi stai prendendo in giro?», lo interruppi io, voltandomi di scatto. Lo guardavo dritto in faccia mentre la pioggia mi inzuppava.

Il suo sguardo era perfidamente divertito. «Per cortesia, posso finire di parlare?».

Mi morsi le labbra e strinsi una mano nell’altra, con forza, per evitare di assalirlo.

«Ti ho sentita dire che quel giorno hai in programma di andare a Seattle e volevo chiederti se accetteresti un passaggio».

Questo non me l’aspettavo.

«Cosa?». Chissà dove voleva arrivare.

«Vuoi un passaggio fino a Seattle?».

«Da chi?», chiesi, disorientata.

«Da me, ovviamente». Scandì la frase sillaba per sillaba, come se parlasse con una ritardata.

Ero sbigottita. «Perché?».

«Be’, avevo intenzione di fare un salto a Seattle nelle prossime settimane e, onestamente, non sono sicuro che il tuo pick-up possa farcela».

«Il mio pick-up funziona più che bene, molte grazie per l’interessamento». Ricominciai a camminare, ma ero troppo sorpresa per mantenere lo stesso livello di arrabbiatura.

«Il tuo pick-up ce la fa anche con un solo pieno di benzina?». Mi stava ancora alle calcagna.

«Non credo siano affari tuoi». Stupido possessore di Volvo metallizzata.

«Lo spreco di riserve non rinnovabili è affare di tutta la comunità».

«Seriamente, Edward», sentii un brivido quando pronunciai il suo nome e non ne fui contenta, «non riesco a seguirti. Pensavo che non volessi essermi amico».

«Ho detto che sarebbe meglio se non diventassimo amici, non che non voglio».

«Oh, grazie, adesso è tutto molto più chiaro». Sarcasmo pesante. Mi accorsi di essermi fermata, di nuovo. Ora ci trovavamo al riparo della tettoia della mensa, perciò guardarlo in faccia era più facile. Il che non mi aiutava di certo a mantenere la lucidità.

«Sarebbe più... prudente che tu non diventassi mia amica», spiegò lui. «Ma sono stanco di costringermi a evitarti, Bella».

Mi parlò fissandomi con uno sguardo celestiale e intenso, la sua voce era caldissima. Mi bloccò letteralmente il respiro.

«Vieni con me a Seattle?», chiese, con la stessa intensità.

Ancora non riuscivo a parlare, perciò feci un cenno con il capo.

Lui sorrise per un istante, poi tornò serio.

«Sarebbe meglio che mi stessi lontana, sul serio», mi avvertì. «Ci vediamo a lezione».

Si voltò di scatto e tornò sui suoi passi.

5

Gruppo sanguigno

Giunsi nell’aula di inglese completamente intontita. Quando entrai non mi accorsi nemmeno che la lezione era già iniziata.

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