Stephenie Meyer - Twilight

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Twilight: краткое содержание, описание и аннотация

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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«A parte me, ovviamente».

«Sì, a parte te». Il suo umore cambiò all’improvviso, l’espressione si fece pensosa. «Chissà perché».

Di nuovo fui costretta a distogliere lo sguardo dal suo, troppo intenso. Mi concentrai sul tappo della limonata, cercando di svitarlo. La sorseggiai, mentre fissavo il tavolo senza vederlo.

«Non hai fame?», chiese lui, distrattamente.

«No». Non mi andava di dirgli che ero a stomaco pieno... di farfalle. «E tu?». Lanciai un’occhiata al tavolo vuoto.

«No, non ho fame». Non riuscii a interpretare la sua espressione: sembrava stesse ridendo di una battuta che non potevo capire.

«Mi faresti un favore?», chiesi dopo un secondo di esitazione.

Subito si fece guardingo. «Dipende da cosa vuoi».

«Non è granché», lo rassicurai.

Restò in attesa, sospettoso ma incuriosito.

«Mi chiedevo... se ti andrebbe di farmelo sapere, la prossima volta che decidi di ignorarmi per il mio bene. Così mi posso preparare». Guardavo la bottiglia di limonata, sfiorando con il dito roseo il bordo del tappo.

«Mi sembra corretto», rispose. Rialzai lo sguardo e lo vidi serrare le labbra per soffocare una risata.

«Grazie».

«In cambio, posso avere una risposta?».

«Una sola».

«Spiegami una teoria».

Ops. «Quella no».

«Non hai specificato, mi hai solo promesso una risposta», puntualizzò.

«Tu sei ancora in debito di una promessa», ribattei io.

«Solo una teoria: giuro che non mi metto a ridere».

«Oh sì, lo farai». Di questo ero certa.

Abbassò lo sguardo; poi, da sotto le lunghe ciglia nere, lanciò un’occhiata dorata che mi trafisse.

«Per favore», sussurrò, avvicinandosi a me.

In un attimo la mia mente si svuotò. Santi numi, come diamine faceva?

«Ehm, cosa?». Ero frastornata.

«Per favore, raccontami solo una teoria, una piccola». I suoi occhi continuavano ad ardere.

«Ehm, dunque, sei stato punto da un ragno radioattivo?». Era anche un ipnotizzatore? Oppure ero io senza nerbo?

«Poco originale». Mi stava prendendo in giro.

«Scusa, ma di più non riesco a fare», risposi stizzita.

«Non ci siamo proprio».

«Niente ragni?».

«Nah».

«Niente radioattività?».

«Niente».

«Acci...».

«E la kriptonite non mi fa niente», ridacchiò lui.

«Alt, avevi detto che non avresti riso». Si sforzò di tornare serio.

«Prima o poi capirò», lo avvertii.

«Meglio che non ci provi». Era tornato serio.

«Perché?».

«E se non fossi il supereroe? Se fossi il cattivo?». Sorrise. Cercava di scherzare, ma il suo sguardo era impenetrabile.

«Oh», dissi, e mi parve che molte di quelle allusioni acquistassero improvvisamente senso. «Capisco».

«Davvero?». Il suo viso si fece improvvisamente severo, come per paura di essersi lasciato scappare una frase di troppo.

«Sei pericoloso?», chiesi, in preda al batticuore quando intuii il fondo di verità nella mia domanda. Sì, era pericoloso. Ecco cosa stava cercando di dirmi.

Si limitò a guardarmi, preso da una qualche emozione che non riuscivo a cogliere.

«Ma non cattivo», sussurrai, scuotendo il capo. «No, non posso credere che tu sia cattivo».

«Ti sbagli». La sua voce era quasi impercettibile. Guardò giù, rubò il tappo della bottiglietta e iniziò a giocherellarci. Lo fissavo e mi chiedevo perché non mi facesse paura. Diceva sul serio, era evidente. Eppure io mi sentivo solo inquieta, ansiosa... e affascinata, soprattutto. Lo stesso stato d’animo che la sua vicinanza mi aveva sempre scatenato.

Il silenzio proseguì finché non mi accorsi che la mensa era quasi vuota.

Scattai in piedi. «Arriveremo in ritardo».

«Oggi non vengo a lezione», disse lui, roteando il tappo così veloce da farlo quasi sparire.

«Perché no?».

«Saltare qualche lezione fa bene alla salute». Sorrideva, ma lo sguardo era ancora inquieto.

«Be’, io ci vado», risposi. Ero troppo codarda per rischiare di farmi scoprire.

Tornò a fissare il tavolo. «Allora ci vediamo più tardi».

Esitai per un istante, lacerata, ma allo squillo della campana corsi via. Gli gettai un’ultima occhiata dalla porta, e in effetti era ancora lì, immobile.

Mentre procedevo di buon passo verso l’aula, la testa mi girava più velocemente del tappo della bottiglia. La conversazione aveva prodotto pochissime risposte e troppe nuove domande.

Se non altro, aveva smesso di piovere.

Per fortuna, il professor Banner non era ancora arrivato. Mi accomodai alla svelta al mio posto, consapevole che Mike e Angela mi stavano osservando. Mike sembrava risentito, Angela era sorpresa, un po’ in soggezione.

Poi arrivò il professore e richiamò la classe all’ordine. Si destreggiava a fatica tenendo tra le braccia alcune scatolette di cartoncino. Le appoggiò sul tavolo di Mike e gli disse di passarle al resto della classe.

«Bene, ragazzi, ora prendete un oggetto da ogni scatola», disse, infilandosi un paio di guanti di gomma estratti dalla tasca del camice. Lo schiocco secco dei guanti attorno ai suoi polsi fu per me un cattivo presagio. «Il primo è un cartoncino di controllo», proseguì, mostrandoci un quadrato bianco diviso in quattro sezioni. «Il secondo è un applicatore a quattro aghi», mostrò un aggeggio che sembrava un pettine sdentato, «e il terzo è una lancetta sterile». Afferrò un oggetto di plastica blu e lo aprì in due. La punta era invisibile dalla distanza in cui stavo, ma mi fece comunque rivoltare lo stomaco.

«Farò il giro dei banchi con un contagocce per preparare i cartoncini, perciò, per favore, prima di iniziare aspettate me». Cominciò dal tavolo di Mike, lasciando cadere con attenzione una goccia d’acqua su ognuno dei quadrati del cartoncino. «Poi vi chiederò di pungervi un dito con la lancetta...», prese la mano di Mike e gli conficcò la punta sul polpastrello del dito medio. Oh no. La mia fronte si velò di sudore freddo.

«Sporcate con una gocciolina di sangue ciascuno degli aghi dell’applicatore». Continuò la dimostrazione stringendo il dito di Mike fino a fargli versare del sangue. Io deglutivo convulsamente, con lo stomaco sottosopra.

«Poi fate combaciare l’applicatore e il cartoncino», concluse, mostrandoci per bene il quadrato sporco di sangue. Chiusi gli occhi, cercando di ascoltarlo senza badare alle orecchie che mi fischiavano.

«La prossima settimana la Croce Rossa organizzerà una giornata di donazioni a Port Angeles, perciò mi sembrava utile farvi scoprire qual è il vostro gruppo sanguigno». Sembrava orgoglioso di sé. «Ai minori di diciotto anni serve il consenso dei genitori: i moduli sono sulla cattedra».

Continuò il giro della classe, con il contagocce in mano. Io appoggiai la guancia al piano freddo e nero del tavolo, sforzandomi di non svenire. Sentivo il pigolio, le lamentele e le risatine dei miei compagni di classe che si pungevano le dita. Iniziai a respirare lentamente, con la bocca.

«Bella, stai bene?», chiese il professor Banner. Sentivo la sua voce molto vicina, e sembrava allarmata.

«Conosco già il mio gruppo sanguigno, professore». Risposi con un sussurro. Avevo paura di alzare la testa.

«Ti senti debole?».

«Sì, signore», mormorai, prendendomela con me stessa per non aver saltato la lezione.

«Qualcuno può portare Bella in infermeria, per favore?».

Anche senza sollevare il capo sapevo che il volontario sarebbe stato Mike.

«Riesci a camminare?», chiese il professor Banner.

«Sì», sussurrai. Fatemi solo uscire di qui, anche strisciando, pensavo.

Sembrava che Mike non vedesse l’ora di mettermi un braccio attorno alla vita e di tenermi stretta a sé. Mi appoggiai a lui di peso e mi lasciai trascinare fuori dall’aula.

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