Stephenie Meyer - Twilight

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Twilight: краткое содержание, описание и аннотация

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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Era sbigottito. Mi fissava, incredulo.

Quando si decise a rispondere, sembrava quasi impazzito. «Vuoi dire che pensi mi sia pentito di averti salvato la vita?».

«Non penso. Lo so » .

«Tu non sai niente». Sì, era pazzo furioso.

Mi voltai, piena di sdegno, con la bocca serrata per non lasciarmi scappare tutte le accuse che avrei voluto rovesciargli addosso. Raccolsi i libri, mi alzai e andai verso la porta. Avrei desiderato uscire teatralmente dalla classe, impettita, ma ovviamente la punta del mio stivale incappò nello stipite e i libri mi caddero. Per un istante rimasi lì a chiedermi se fosse il caso di lasciarli dov’erano. Poi feci un sospiro e mi piegai a raccoglierli. Ed eccolo al mio fianco: li aveva già impilati uno sull’altro. Me li porse, serio e accigliato.

«Grazie», dissi, gelida.

Contraccambiò, gli occhi diventati due fessure: «Prego».

Mi rialzai di scatto, girai i tacchi e mi precipitai verso la palestra, senza guardare indietro.

La lezione di ginnastica fu dura. Dalla pallavolo eravamo passati alla pallacanestro. I miei compagni di squadra non mi passavano mai la palla - fin qui tutto bene - ma non facevo che cadere. Talvolta trascinavo qualche altro giocatore con me. Quel giorno andò peggio del solito, perché in testa avevo soltanto Edward. Cercavo di concentrarmi sui miei piedi, ma lui continuava a sgusciare tra i miei pensieri ogni volta che avevo bisogno di equilibrio.

La fine della lezione fu un sollievo. Raggiunsi il pick-up quasi di corsa: c’erano davvero troppe persone che non volevo incontrare. I danni al veicolo, dopo l’incidente, erano stati minimi. Avevo dovuto cambiare i fari posteriori, e se la verniciatura fosse stata più seria avrei dovuto metter mano anche a quella. Ai genitori di Tyler era toccato vendere quello che restava del furgoncino.

Mi venne quasi un colpo quando vidi, voltato l’angolo, una sagoma alta e scura appoggiata alla fiancata del pick-up. Mi fermai. Poi mi accorsi che si trattava semplicemente di Eric e ripresi a camminare.

«Ciao, Eric».

«Ciao, Bella».

«Come va?», chiesi, mentre aprivo la portiera. Non avevo notato il tono imbarazzato del suo saluto, perciò le sue parole mi presero alla sprovvista.

«Ehm, mi chiedevo se... verresti con me al ballo di primavera?». L’ultima parola la disse balbettando.

«Mi sembrava che secondo tradizione gli inviti spettassero alle ragazze», risposi, troppo sbigottita per essere diplomatica.

«Be’, sì», ammise, rosso di vergogna.

Recuperai il contegno e cercai di rivolgergli un sorriso convincente. «Grazie per avermelo chiesto, ma purtroppo quel sabato sarò a Seattle».

«Ah», rispose lui, «allora magari la prossima volta».

«Certo», conclusi io, pentendomene subito. Sperai che non mi prendesse troppo alla lettera.

Lui tornò verso la scuola, ciondolando. Io sentii una risatina soffocata.

Edward camminava davanti al mio pick-up, lo sguardo dritto di fronte a sé, e tratteneva un sorriso. Saltai sul sedile sbattendo la portiera con violenza. Misi in moto e, rombando, feci retromarcia sul viale. Edward era già sulla sua macchina, a due piazzole di distanza, e mi svicolò davanti bloccandomi. Si fermò lì, ad aspettare i suoi fratelli; li vedevo procedere verso di noi, ma erano ancora vicini alla mensa. Per un attimo pensai se fosse il caso di tranciare la coda alla sua Volvo luccicante, ma c’erano troppi testimoni. Guardai nel retrovisore. Si stava formando una coda. Proprio dietro di me c’era Tyler Crowley sulla Sentra usata che aveva appena comprato e mi salutava con la mano. Ero troppo snervata per degnarlo di una risposta.

Mentre attendevo, evitando con cura di guardare verso l’auto che mi precedeva, sentii qualcuno bussare al finestrino del passeggero. Mi voltai e vidi Tyler. Perplessa, lanciai uno sguardo allo specchietto. Aveva lasciato la macchina accesa in mezzo alla strada, con la portiera aperta. Mi sporsi per abbassare il vetro. Era durissimo. Arrivata a metà, rinunciai all’impresa.

«Scusa Tyler, sono bloccata dietro Cullen». Ero seccata: ovviamente l’ingorgo non era colpa mia.

«Oh sì, ho visto. Volevo soltanto chiederti una cosa, mentre siamo fermi qui». Fece un gran sorriso.

Non poteva essere.

«Mi inviteresti al ballo di primavera?».

«Sarò fuori città, Tyler». Mi uscì un tono di voce leggermente acido. Dovevo tener presente che non era colpa sua se Mike ed Eric avevano già esaurito la mia quota di pazienza per quel giorno.

«Già, me l’ha detto Mike», confessò.

«Ma allora...».

Fece spallucce. «Speravo fosse un modo carino di rifiutare il suo invito».

Bene, a questo punto diventava colpa sua.

«Spiacente, Tyler», dissi, sforzandomi di nascondere l’irritazione. «Sarò davvero fuori città».

«Non c’è problema. Rimandiamo al ballo di fine anno».

Prima che potessi rispondergli, tornò in auto. Sentivo l’espressione stupefatta sul mio volto. Non vedevo l’ora che Alice, Rosalie, Emmett e Jasper si infilassero su quella Volvo. Edward mi fissava dal retrovisore interno. Stava di fatto morendo dal ridere, come se avesse origliato il nostro dialogo dalla prima all’ultima parola. Che voglia di premere l’acceleratore... un colpetto non avrebbe fatto male a nessuno, giusto quanto bastava a graffiare un po’ quella splendente vernice argento metallizzata. Misi di nuovo in moto.

Ma erano già saliti, ed Edward stava sfrecciando via. Percorsi la strada verso casa a bassa velocità, bofonchiando senza sosta.

Una volta arrivata a casa, decisi di preparare le enchiladas di pollo. Era una ricetta complicata e mi avrebbe tenuta occupata per un po’. Mentre facevo sobbollire le cipolle e il peperoncino, il telefono iniziò a squillare. Avevo quasi paura di rispondere, ma poteva anche essere Charlie, o mia madre.

Era Jessica, esultante: Mike, dopo le lezioni, l’aveva fermata per dirle che accettava l’invito. Festeggiai distrattamente con lei, mentre rimestavo. Doveva andare, voleva chiamare Angela e Lauren per dirlo anche a loro. Le suggerii - ostentando ingenuità - che magari Angela, la ragazza timida che frequentava biologia assieme a me, avrebbe potuto invitare Eric. E Lauren, una smorfiosa che a pranzo non mi rivolgeva mai la parola, avrebbe potuto invitare Tyler; avevo sentito che lui era ancora disponibile. Jess la giudicò una grande idea. Adesso che era sicura di Mike, il suo dispiacere per la mia assenza al ballo sembrava sincero. Accampai di nuovo la scusa di Seattle.

Dopo la telefonata, cercai di concentrarmi sulla cena, soprattutto sul tagliare il pollo a dadi: non mi andava di tornare a far visita al pronto soccorso. Ma mi girava la testa, mentre tentavo di analizzare ogni parola pronunciata da Edward quel giorno. Cosa voleva dire che era meglio che non diventassimo amici?

Sentii un blocco allo stomaco, quando mi resi conto di cosa poteva significare. Probabilmente aveva capito quanto fossi presa da lui; non voleva che andassi troppo oltre... perciò non potevamo essere neanche amici... perché non gli interessavo affatto.

Ma certo che non gli interessavo, pensai, arrabbiata e con gli occhi lucidi - reazione ritardata al taglio delle cipolle. Io non ero interessante. Lui sì. Interessante... brillante... misterioso... perfetto... bellissimo... e probabilmente anche capace di alzare un furgoncino con una mano sola.

Be’, poco importava. Avrei anche potuto lasciarlo perdere. Lo avrei lasciato perdere. Avrei scontato la mia condanna autoimposta in quel purgatorio, e poi, a voler essere ottimisti, una qualche scuola del Sudovest, o magari delle Hawaii, mi avrebbe offerto una borsa di studio. Mentre terminavo le enchiladas e le infornavo, pensai soltanto a spiagge assolate e palme.

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