Stephenie Meyer - Twilight

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Twilight: краткое содержание, описание и аннотация

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Bella si è appena trasferita a Forks, la città più piovosa d’America. È il primo giorno nella nuova scuola e, quando incontra Edward Cullen, la sua vita prende una piega inaspettata e pericolosa. Con la pelle diafana, i capelli di bronzo, i denti luccicanti, gli occhi color oro, Edward è algido e impenetrabile, talmente bello da sembrare irreale. Tra i due nasce un’amicizia dapprima sospettosa, poi più intima, che presto si trasforma in un’attrazione travolgente. Finora Edward è riuscito a tener nascosto il suo segreto, ma Bella è intenzionata a svelarlo. Quello che ancora non sa è che più gli si avvicina e maggiori sono i rischi per lei e per chi le sta accanto... Mentre nella vicina riserva indiana riprendono a circolare inquietanti leggende, un dubbio si fa strada nella mente di Bella. Il sogno romantico che sta vivendo potrebbe essere in realtà l’incubo che popola le sue notti.

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«Ciao, Edward», dissi gentile, per dimostrargli in che disposizione d’animo fossi.

In risposta fece un cenno millimetrico verso di me, ma senza incontrare i miei occhi, e tornò a guardare altrove.

Quello fu l’ultimo contatto tra noi, malgrado ogni giorno ci ritrovassimo a poche spanne di distanza. A volte non riuscivo a resistere e lo osservavo da lontano, a mensa o nel parcheggio. Vedevo i suoi occhi diventare sempre più scuri con il passare dei giorni. Ma in classe non gli riservavo un’attenzione maggiore di quella che lui riservava a me. Stavo malissimo. E continuavo a sognarlo.

Malgrado le mie bugie sfacciate, il tono delle e-mail che spedivo a Renée la fece insospettire e pensò che mi stessi deprimendo, perciò mi chiamò un paio di volte, preoccupata. Cercai di convincerla che ero solo giù a causa del tempo.

Se non altro, Mike fu contento dell’improvvisa freddezza nei rapporti tra me e il mio compagno di laboratorio. Il timore che Edward avesse fatto un figurone, salvandomi, lo aveva evidentemente intimorito, e per lui fu un sollievo notare che l’effetto sembrava l’opposto. Si fece sempre più sfacciato, prima dell’inizio delle lezioni si sedeva sul bordo del banco a parlare con me, ignorando Edward come lui ignorava noi due.

Dopo il pericoloso giorno della gelata, la neve sparì definitivamente. A Mike dispiaceva di non essere più riuscito ad allestire la grande battaglia a cui aveva pensato, ma era felice che finalmente si potesse organizzare la gita in spiaggia. Eppure, non smetteva di piovere, e le settimane passavano.

Jessica mi ricordò che all’orizzonte c’era un altro evento che incombeva su di me. Il primo martedì di marzo mi telefonò per chiedermi il permesso di invitare Mike al ballo di primavera, che si sarebbe tenuto due settimane dopo.

«Sei sicura che non sia un problema... non pensavi di invitarlo tu?», insistette, nonostante le avessi già detto che non ne avevo la minima intenzione.

«No, Jess, io non ci vengo proprio», la rassicurai. Ballare era molto, molto al di là delle mie capacità.

«Ci sarà da divertirsi». Il suo tentativo di convincermi suonava scarsamente entusiasta. Avevo il sospetto che a Jessica piacesse più la mia incomprensibile popolarità che la mia compagnia.

«Ti divertirai, con Mike», cercai di incoraggiarla.

Il giorno dopo, durante trigonometria e spagnolo, mi accorsi con sorpresa che Jessica non era frizzante come al solito. Tra una lezione e l’altra mi camminava al fianco in silenzio, e io esitavo a chiederle perché. Ammesso che Mike avesse rifiutato l’invito, io sarei stata l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto dirlo.

I miei timori si rafforzarono a pranzo, quando Jessica si sedette il più lontano possibile da Mike e prese a chiacchierare vivacemente con Eric. Mike restò stranamente in silenzio.

Silenzio che continuò anche lungo il tragitto che ci portava entrambi all’aula di biologia, e l’aria incerta nei suoi occhi era un cattivo segno. Ma non affrontò l’argomento finché non mi accomodai al mio posto. Lui si appollaiò sul banco. Come al solito, sentivo nell’aria la presènza elettrica di Edward, seduto tanto vicino da poterlo toccare, ma anche tanto lontano da apparire un prodotto della mia immaginazione.

«Insomma...», disse Mike, guardando il pavimento, «Jessica mi ha invitato al ballo di primavera».

«Grande». Diedi alla mia voce un tono allegro ed entusiasta. «Te la spasserai davvero, con lei».

«Be’...», balbettò studiando il mio sorriso, evidentemente scontento della mia reazione, «le ho detto che volevo pensarci».

«E perché l’avresti fatto?». Lasciai trapelare il mio disappunto, ma ero contenta che non le avesse rifilato un “no” definitivo.

Tornò a fissare il pavimento e arrossì. La pena che mi faceva mi tolse un po’ di determinazione.

«Mi chiedevo se... be’, non avessi intenzione di invitarmi tu».

Rimasi in silenzio un istante, disgustata dall’ondata di senso di colpa che m’investiva dentro. Con la coda dell’occhio, però, notai la testa di Edward voltarsi automaticamente verso di me.

«Mike, credo che dovresti accettare l’invito di Jessica».

«L’hai già chiesto a qualcun altro?». Chissà se Edward si era accorto che Mike stava guardando proprio lui.

«No, figuriamoci. Non ci vengo, al ballo».

«Perché no?», chiese Mike.

Non volevo rischiare l’osso del collo danzando, perciò mi ero prontamente organizzata.

«Quel sabato vado a Seattle», chiarii. Avevo già progettato una gita fuori città - ne avevo assoluto bisogno - e quella era un’occasione perfetta per farla.

«Non puoi rimandare a un altro fine settimana?».

«No, mi dispiace», risposi. «Perciò non fare aspettare Jess: è scortese».

«Va bene, hai ragione», mormorò, e tornò al suo posto, a capo chino. Io chiusi gli occhi e mi premetti le tempie, cercando di rimuovere il senso di colpa e il dispiacere per Mike. Il professor Banner aveva iniziato a parlare. Sospirai e riaprii gli occhi.

E trovai Edward che mi fissava, curioso, gli occhi scuri di nuovo venati da quel consueto filo di frustrazione, più evidente che mai.

Anch’io lo fissai, sorpresa, sicura che avrebbe abbassato lo sguardo. Invece continuò a scrutarmi dentro, sempre più intensamente. Non ero disposta a cedere. Mi tremavano le mani.

«Cullen?», chiese il professore, in cerca della risposta a una domanda che non avevo sentito.

«Il ciclo di Krebs», rispose Edward, voltandosi, suo malgrado, per prestare attenzione al professor Banner.

Libera dal peso del suo sguardo, tornai al mio libro, cercando di ricomporrai. Codarda come sempre, mi coprii portandomi i capelli sulla spalla destra. Non riuscivo a credere all’ondata di sensazioni che mi era montata dentro, soltanto perché, per la prima volta in sei settimane, mi aveva degnata di uno sguardo. Non potevo permettergli di influenzarmi in quel modo. Ero patetica. Di più, era una cosa malsana.

Per il resto della lezione cercai con tutte le mie forze di non pensare a lui, o, visto che ciò era impossibile, almeno di non fargli capire che pensavo a lui. Quando finalmente la campanella suonò, nel raccogliere le mie cose gli diedi le spalle, immaginando che come al solito se ne sarebbe andato in un baleno.

«Bella?». La sua voce non avrebbe dovuto suonarmi così familiare, come se la conoscessi da una vita anziché da poche settimane.

Mi voltai lentamente, riluttante. Non volevo lasciarmi assalire dal sentimento che sicuramente mi avrebbe assalito ammirando il suo viso troppo perfetto. Quando infine lo guardai, avevo un’espressione preoccupata; la sua era illeggibile. Non disse nulla.

«Cosa? Hai deciso di rivolgermi la parola?», chiesi infine, con tono involontariamente petulante.

Le sue labbra si stesero, trattenendo a malapena un sorriso. «No, non proprio», ammise.

Chiusi gli occhi, inspirai a fondo dal naso e mi accorsi che iniziavo a digrignare i denti. Lui attendeva.

«E allora, Edward, che vuoi?», domandai, ancora a occhi chiusi, così era più facile parlargli senza perdere il filo.

«Mi dispiace». Sembrava sincero. «Sono molto maleducato, lo so. Ma è meglio così, davvero».

Aprii gli occhi. Aveva l’aria molto seria.

«Non capisco che vuoi dire», risposi, senza abbassare la guardia.

«È meglio se non diventiamo amici», chiarì. «Fidati».

Socchiusi gli occhi. Questa l’avevo già sentita.

«Peccato che tu non te ne sia reso conto prima», sibilai. «Non avresti avuto nulla di cui rimproverarti».

«Recriminarmi?». La parola, e la mia voce, l’avevano ovviamente colto di sorpresa. «Rimproverarmi di cosa?».

«Di non avere lasciato semplicemente che quello stupido furgone mi spiaccicasse».

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