Alfredo Aiello - Venezia. Ciminiere Ammainate
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Porto Marghera e Veneto: inconciliabili?
Nellâintervista a Gianni De Michelis sulla inconciliabilità tra lâapparato industriale di Porto Marghera e quello del Veneto, sono affrontate tre grandi questioni.
Primo: vi è stato un âeffetto innescoâ di Porto Marghera che ha consentito, favorito lââesplosioneâ produttiva del Veneto?
Secondo: Porto Marghera, vista come âlâultima versione della Serenissimaâ, ha influenzato le scelte degli imprenditori veneti disincentivando una loro ânaturaleâ espansione a Porto Marghera che si riorganizzava? Terzo: Porto Marghera ha davvero nel futuro una funzione così vitale per il Veneto, addirittura per lâeconomia del Nordest, al fine di evitare che questa «si spiaccichi contro un muro prima ancora di diventare matura»?
Già alla fine degli anni Settanta importanti ricerche rilevavano che era «in corso nella regione una forte trasformazione delle strutture economiche e sociali... sotto forme inedite e sperimentali» (14. Rullani E., C apitalismo periferico e formazione sociale regionale: lâeconomia del âmodelloâ veneto , gennaio 1979, dattiloscritto). Non si trattava, a detta dei ricercatori, di unâipotesi di microformazione sociale, compatta al proprio interno e in frizione con altre realtà regionali, ma semmai di un adattamento dellâassetto regionale a prepotenti spinte recepite dallâesterno, a cominciare dai condizionamenti della divisione internazionale del lavoro. Si venivano così delineando concetti come quelli di âformazione sociale territorialeâ ed âeconomia perifericaâ. Questâultimo richiamava quello di âresidualità â, inteso come ibrido non analizzabile di sviluppo e non-sviluppo. Ma di quale sviluppo si parlava? Massimo Cacciari, trentâanni fa, così lo evidenziava:
Rifacciamoci brevemente alle strutture che hanno determinato lo sviluppo industriale regionale. I dati di cui disponiamo... ci rivelano una struttura industriale complessivamente assai arretrata, senza vistosi segni interni di squilibrio. Il âdualismoâ non passa, cioè, tra piccola industria e industrie a dimensioni medio-grandi (200-1500 addetti). Anzi, il capitale investito per addetto decresce con il crescere delle dimensioni di impresa (ciò che indica un basso livello di capitalizzazione nella media industria e non , relativamente alle altre regioni settentrionali, un alto livello nella piccola); la produttività del lavoro è pressoché equivalente nelle diverse categorie di imprese... à evidente che la relativa âtenutaâ dellâoccupazione industriale nel Veneto è strettamente correlata a questa struttura diffusamente âarretrataâ, a bassa intensità di capitale.(15. Cacciari M., Struttura e crisi del âmodelloâ economico-sociale veneto, in «Classe», 11, 1975).
Successivamente lâevoluzione della struttura produttiva del Veneto ha portato alla diffusione dei distretti industriali «... medium di conoscenza e di relazioni che permette la comunicazione e il coordinamento operativo tra soggetti situati nel medesimo contesto di esperienza (locale)» (16 Rullani E., Distretti industriali ed economia globale, in «Oltre il Ponte», 50, p. 32) e a una straordinaria articolazione dei sistemi produttivi locali, che hanno interessato anche le aree vicine a Porto Marghera. Non esistono, però, ricerche empiriche che documentino, per la provincia di Venezia come per il Veneto, un sicuro effetto âinnescoâ prodotto da Porto Marghera. Se De Michelis ha ragione, si tratta di una ragione ancora da dimostrare. Si può, a tale proposito, rimanere su un piano intuitivo come fa il direttore dellâAssociazione degli industriali di Venezia, Italo Turdò, quando sostiene che avere vicino lâalluminio e le altre materie prime ha permesso a molti nel Veneto di svilupparsi. Più netto è, invece, il parere di Gianni Pellicani, che considera alla base delle condizioni di sviluppo del Veneto non solo lâindiscussa creatività e laboriosità dei veneti ma anche le note condizioni di vantaggio come la manodopera a basso costo, la politica inflazionistica e il deprezzamento della moneta, oltre agli effetti della legislazione degli anni Cinquanta e Sessanta sulle aree depresse. Alle incertezze sullâeffetto âinnescoâ si contrappone la certezza sulla seconda questione: lâimprenditoria veneta non ha finora partecipato, tranne qualche rarissimo caso (come quello dellâimprenditore siderurgico di Vicenza Beltrame che ha rilevato lâex Italsider di Porto Marghera), al processo di reindustrializzazione del polo industriale veneziano. Infine, sul punto che attiene alle prospettive del Veneto e sul ruolo che in ciò può giocare Porto Marghera, appare verosimile, come vedremo più avanti, ritenere che la riorganizzazione del sistema dei trasporti e della logistica porrà Porto Marghera in una posizione di eccellenza, grazie, innanzitutto, alle sue infrastrutture. Con benefici che possono coinvolgere un territorio più vasto.
2. I processi politici e i soggetti
La vertenza delle imprese di appalto e della Sava
La fase di sviluppo industriale che investe Porto Marghera a partire dagli anni Settanta è âfisicamenteâ visibile, con investimenti produttivi per la costruzione di nuovi impianti chimici, al cantiere navale Breda, allâAlumix di Fusina, che determinano una crescita velocissima di nuovi posti di lavoro i quali, solo nelle imprese specializzate e dedicate prima alla costruzione e poi alla manutenzione degli impianti, portano dallâentroterra veneziano e veneto, ma anche e soprattuto dal Sud Italia e finanche dallâestero, migliaia di lavoratori. La vertenza che il sindacato veneziano apre nei confronti delle controparti padronali nellâaprile del 1970, per la difesa dei diritti dei lavoratori delle imprese di appalto, si colloca allâinterno di quel processo di sviluppo. Due mesi dopo lâapertura della vertenza delle imprese esplode la crisi produttiva della Sava di Porto Marghera. A questo proposito riporto brani di unâintervista di Chiara Puppini a Giuliano Ghisini, segretario della Fiom negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta e poi segretario della Cgil veneziana fino alla metà degli anni Ottanta. Lâintervista, del 3 ottobre 1994, è stata voluta da Chiara, moglie di Germano Antonini, dirigente sindacale della Cgil veneziana, deceduto il 5 febbraio dello stesso anno, a soli cinquantadue anni, in vista di un suo progetto di biografia del marito.
PUPPINI. La giornata di lotta del 2 agosto... câero anchâio quella volta. Sono scappata con la motoretta di un amico. Ricordo che câerano i Boato... poi câè stato quellâepisodio della camionetta della polizia rovesciata e incendiata, con i poliziotti che sono scappati. Allora Germano mi ricordava che era stato lui con Gianmaria e unâaltra persona... Tu sai qualcosa? Tu Giuliano la sai bene la vicenda, raccontala.
GHISINI. Sì... câera anche Manente delle Leghe leggere. Come hai detto câerano questi poliziotti con la camionetta, erano âceleriniâ di Padova. Erano in quattro o forse cinque, con la camionetta e nella ressa puntano la pistola... davanti câerano Germano e Gianmaria, che gli dicono: «Ma che razza di roba, perché fate questo atto, via la rivoltella!». Intanto Manente arriva con una bottiglia Molotov e la butta sulla camionetta. A quel punto i poliziotti chiedono a Gianmaria e Germano di tenere le mani alzate. Si può immaginare a che livello fosse la tensione. Germano e Gianmaria a quel punto, rivolti ai poliziotti armati, dicono: «Noi non câentriamo» e scappano. La camionetta viene rivoltata, subito dopo, in via Fratelli Bandiera.
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