Il coroner stabilì che entrambi gli uomini erano morti da almeno quarantotto ore. Anche se la polizia diede immediatamente inizio alle ricerche, gli investigatori ipotizzarono subito che l’assassino fosse già fuggito da tempo e che avesse già lasciato l’isola. C’erano molte prove che riconducevano a Rachel: i suoi bagagli nella camera da letto, le sue impronte digitali sul corrimano vicino a dove giaceva Mitchell Geary. In seguito, comunque, le analisi della scientifica fornirono alcune valide ragioni per dubitare della sua colpevolezza: il proprietario di un emporio identificò Mitchell come l’uomo che aveva acquistato l’arma del delitto; e sul coltello furono trovate solo le impronte di Mitchell. Ma il fatto che non fosse stata lei a sferrare il colpo fatale non la scagionava del tutto. Ben presto sui giornali comparvero le teorie più disparate su ciò che era accaduto alla casa. Secondo la più accreditata, Mitchell si era recato sull’isola per riprendersi sua moglie ma, sospettando che lei avesse architettato un piano per ucciderlo, si era procurato un’arma. Poi aveva ucciso l’uomo che lei aveva assoldato per assassinarlo e alla fine — forse lottando con Rachel — era caduto giù dalle scale ed era morto per una pura fatalità.
Non mancarono i commenti su queste teorie — un paio degli articolisti più attenti notarono quanto fossero sempre stati difficili i rapporti tra i Geary e le loro consorti. Alcuni sostennero addirittura di aver previsto la tragedia, e dissero che si era trattato di un evento inevitabile. Quella era una coppia nata all’inferno, scrisse una delle più velenose giornaliste scandalistiche, e sono sorpresa che ci sia voluto tanto tempo perché si arrivasse a una fine drammatica. Raramente le questioni amorose e matrimoniali sono state facili all’interno della famiglia Geary. Basta guardare la storia della dinastia per trovare la dimostrazione che gli uomini della famiglia troppo spesso hanno trattato le loro mogli come se fossero state poco più che investimenti dotati di un utero, destinati a fruttare figli invece che dollari. C’è da meravigliarsi, quindi, che Rachel Geary abbia voluto opporsi a un destino del genere?
La famiglia non fece dichiarazioni pubbliche sull’argomento, a parte un breve comunicato scritto con estrema cautela da Cecil in cui si diceva che i Geary avevano la massima fiducia nelle indagini della polizia.
Questa volta non vi furono riunioni di famiglia per discutere l’accaduto, né discorsi toccanti di Loretta sul fatto che quell’avversità avrebbe permesso ai Geary di dimostrare la loro forza. Quella era la terza morte che aveva segnato la famiglia nel giro di pochi mesi e ciascuno preferì vivere in privato il proprio dolore. Il funerale di Cadmus venne rimandato di diversi giorni, in modo che il corpo di Mitchell potesse essere riportato indietro dalle Hawaii e che si potesse organizzare una cerimonia congiunta. Loretta non si occupò dei preparativi: lasciò questo compito a Carl Linville. Accompagnata da Jocelyn, si recò nella casa di Washington, dove non rispose alle telefonate e si rifiutò di parlare con chiunque a parte Cecil. Aveva perso il suo ultimo alleato, ora che il principe era morto. Solo il tempo avrebbe potuto dire se il piano di Loretta per controllare la famiglia avrebbe avuto successo o meno; per il momento, il mondo avrebbe dovuto fare a meno di lei.
Solo Garrison sembrò non essere toccato da quegli avvenimenti. Quando si recò alle Hawaii per riportare a casa la salma del fratello, attraversò le orde di fotografi e giornalisti che lo stavano attendendo all’aeroporto come un uomo che avesse ritrovato la voglia di vivere. Non che si esibisse in sorrisi che l’opinione pubblica avrebbe trovato di cattivo gusto, ma tutti quelli che lo conoscevano e conoscevano il brusco linguaggio del suo corpo e la sua riservatezza si accorsero che era avvenuto un notevole cambiamento in lui. Era come se Garrison avesse ereditato le doti e soprattutto la sicurezza che avevano sempre contraddistinto il principe Mitchell. Passò attraverso i giornalisti senza dire una parola, ma dispensando cenni che sembravano dire: Ora sono io al potere.
Quando arrivò sull’isola, il suo primo dovere fu quello di andare all’obitorio di Lihue per confermare l’identificazione del corpo di Mitchell. Fatto questo, venne accompagnato in macchina fino alla casa, dove gli fu concesso di restare da solo per un po’. Quando, dopo mezz’ora, il capitano della polizia che lo aveva accompagnato non lo vide uscire, entrò e scoprì che non c’era nessuno. Garrison aveva da tempo finito di riflettere ed era andato sulla spiaggia. Lui, vestito di nero e con le mani sprofondate nelle tasche, si stagliava contro il mare bianco e turchese. Garrison stava fissando l’oceano e non si mosse per altri quindici minuti. Quando tornò alla macchina, stava sorridendo.
“Andrà tutto bene”, disse.
Non esistono vere conclusioni per tutti questi eventi. Tutte queste vite continueranno anche oltre la fine del libro che state leggendo; ci sarà sempre qualcos’altro da raccontare. Ma devo tracciare una linea e ho deciso di farlo adesso, osservazione più osservazione meno. Per quanto possa essere tentato dall’idea di riprendere il filo dei fatti a cui ho solo accennato, non ho comunque il coraggio di farlo.
Quindi lasciate che vi racconti ciò che è accaduto quando, dopo aver vagato per un po’ per la casa e dopo aver riflettuto su quanto avevo appena scritto, sono arrivato nell’atrio.
Ho alzato gli occhi e là, in cima alle scale, ho scorto un movimento tra le ombre.
Ho pensato che si trattasse di Zabrina e l’ho chiamata, ma mentre pronunciavo il suo nome mi sono reso conto del mio errore. La sagoma che avevo visto sulle scale era sottile e in qualche modo vaga.
“Zelim?” ho azzardato.
Con passo esitante, la sagoma ha fatto qualche gradino. Sì, era proprio Zelim, o ciò che restava di lui. La sua presenza stava al suo vecchio sé, come il suo vecchio sé stava al pescatore di Atva. Era il fantasma di un fantasma, una sagoma ormai quasi impalpabile. Era come un’anima di fumo che manteneva quella forma solo perché non c’era un alito di vento che la disperdesse. Ho trattenuto il fiato. Zelim sembrava talmente fragile che temevo che persino il mio respiro potesse dissolverlo.
Tuttavia aveva abbastanza forza per parlare: una voce tremolante, certo, che si affievoliva sillaba dopo sillaba, eppure dotata di una strana eloquenza. Ho sentito subito la felicità che provava e ho capito che cos’era successo ancora prima che me lo dicesse lui.
“Cesaria mi ha lasciato libero…” ha dichiarato.
Ho ricominciato a respirare. “Sono felice per te”, ho detto.
“Ti… ringrazio…” In quell’ultima fase della sua esistenza, i suoi occhi erano diventati grandi come quelli di un bambino.
“Quando è successo?” gli ho chiesto.
“Solo… pochi… minuti fa…” ha risposto lui. La sua voce era così flebile che quasi faticavo a udirla. “Appena… appena… ha saputo…”
Non sono riuscito a sentire il resto della frase, ma non ho perso tempo a chiedergli di ripetere per paura di sprecare quegli ultimi momenti. Così sono rimasto in silenzio. Zelim era quasi scomparso ora. Non solo la sua voce, ma anche la sua presenza fisica si dissolveva col passare di ogni istante. Non provavo dolore per lui — come avrei potuto quando aveva espresso così chiaramente il suo desiderio di abbandonare il mondo? — tuttavia quello era uno spettacolo stranamente malinconico: un’anima che veniva cancellata davanti ai miei occhi.
“Ricordo…” ha mormorato “… quando è venuto a prendermi…”
Di cosa stava parlando?, mi sono chiesto.
“… a Samarcanda…” ha continuato Zelim. Oh, adesso capivo. Avevo parlato degli eventi che lui stava rievocando, li avevo descritti proprio in queste pagine. Zelim, il vecchio filosofo seduto tra i suoi studenti, intento a raccontare una storia su Dio; Zelim, che aveva alzato lo sguardo e aveva visto uno sconosciuto in fondo alla stanza ed era morto. Ma alla sua morte era stato chiamato al servizio di Cesaria Yaos. Ora che aveva esaurito il suo compito, Zelim stava ripensando — con affetto, a giudicare dall’espressione dolce che gli animava gli occhi — a come era stato chiamato; e da chi. Da Galilee, naturalmente. Ha detto:
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