Clive Barker - Galilee

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Galilee: краткое содержание, описание и аннотация

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Una saga grandiosa in bilico fra realtà e soprannaturale dove si intrecciano i destini di due famiglie — una di stirpe divina, l'altra umana ma potentissima - divise da sempre da un odio atavico. E quando scatta il colpo di fulmine tra Rachel e Galilee, i discendenti delle due dinastie, gli antichi rancori riemergono scatenando una travolgente guerra dei mondi attraverso il Tempo e lo Spazio. Tradimenti, lussuria e magnifiche visioni metafisiche in una storia di linee di sangue intrecciate che riflette i conflitti celati nella nostra anima più segreta.

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Ho sognato di nuovo: questa volta non ho sognato né il mare né la grigia desolazione di una città, ma un cielo luminoso e un deserto selvaggio. Poco lontano da me, c’era una carovana di uomini e cammelli e al loro passaggio si sollevavano nuvole di polvere ocra. Ho sentito gli uomini gridare ordini ai loro animali, lo schiocco secco dei bastoni contro i fianchi dei cammelli. Ho sentito anche il loro odore, l’aroma pungente della terra e del cuoio. Non avevo un grande desiderio di unirmi a loro, ma quando mi sono guardato attorno mi sono reso conto che il paesaggio che mi circondava era completamente vuoto.

Sono dentro me stesso, ho pensato, polvere e vuoto in ogni direzione; è questo che mi resta ora che ho finito di scrivere.

La carovana si stava allontanando da me. E io mi sono reso conto che se non mi fossi mosso al più presto, l’avrei persa di vista. Cosa avrei fatto a quel punto? Sarei morto di solitudine o di sete. Per quanto infelice potessi essere, non ero ancora pronto per una cosa simile. Mi sono incamminato verso la carovana e ben presto ho incominciato a correre.

Poi, all’improvviso, mi sono ritrovato in mezzo ai viaggiatori, circondato dal loro chiasso e dal loro odore. Ho percepito il movimento ritmico di un cammello sotto di me e abbassando lo sguardo mi sono accorto che mi trovavo proprio sulla schiena di uno degli animali. Il paesaggio — quel vuoto doloroso di terra riarsa — adesso era nascosto dalla polvere sollevata dai viaggiatori attorno a me.

Qualcuno ha cominciato a cantare, con voce sempre più sicura nel fragore della carovana. Era un canto onirico, del tutto incoerente ma stranamente familiare. Ho ascoltato con attenzione, cercando di dare un senso alle sillabe che sentivo. Ma la canzone continuava a sfuggirmi anche se in certi momenti mi sembrava incredibilmente vicina.

Stavo per arrendermi, quando qualcosa nel ritmo del canto mi ha fornito un indizio e le parole, che fino a pochi istanti prima mi sembravano prive di senso, sono diventate chiare.

Non era il canto di un viaggiatore, quello che stavo ascoltando; non era un qualche peana esotico intonato per il cielo del deserto: era una filastrocca che apparteneva alla mia infanzia. La canzone che avevo cantato dai rami di un prugno molti, molti anni prima.

Ero
Sono
E sempre
Sarò, perché
Ero…

Sentendola, ho unito la mia voce al canto e altre voci a loro volta si sono levate attorno a me. E quelle strofe si ripetevano all’infinito come il movimento della ruota delle stelle.

Mi sono sentito invadere dalla gioia. Non ero vuoto, nonostante le lacrime che avevo portato a letto con me. Mi restavano sempre i ricordi, dolci e pungenti come le prugne sui rami di quell’albero. Pronte a essere mangiate quando avevo bisogno di nutrimento. Certo, in fondo a quei frutti c’erano noccioli duri e aspri, ma la polpa che li circondava era morbida e succosa. Dopotutto non me ne sarei andato completamente vuoto.

La canzone continuava ma le voci dei miei compagni invisibili erano sempre più remote. Mi sono voltato a guardare e mi sono accorto che ormai stavo viaggiando da solo e stavo cantando da solo, il ritmo del mio canto perfettamente sincronizzato a quello dei passi del mio cammello.

Ero,

ho cantato.

Sono…

La polvere si stava diradando e qualcosa che luccicava in lontananza ha attratto la mia attenzione.

E sempre
Sarò, perché…

Era un fiume; mi stavo avvicinando a un grande fiume circondato da immense e rigogliose distese di erb, fiori e alberi. E, oltre la vegetazione, le mura di una città riscaldate dal sole che stava tramontando.

Conoscevo quel fiume; era lo Zarafsham. E la città? Conoscevo anche quella. Il mio canto mi aveva condotto alla città di Samarcanda.

Ecco tutto. Non mi sono avvicinato più di così. Ma è stato abbastanza. In quel momento mi sono svegliato e ciò che avevo visto era ancora così reale che la malinconia, che mi aveva accompagnato nel sonno, era scomparsa, curata da ciò che avevo vissuto. E questa è la saggezza dei sogni.

2

Era metà pomeriggio quando sono sceso in cucina in cerca di qualcosa da mangiare. Non mi ero cambiato, pensando di potermi preparare un panino e tornare subito in camera senza essere visto da nessuno. Ma in cucina ho trovato Zabrina e Dwight. Il mio aspetto li ha lasciati entrambi perplessi.

“Ha bisogno di radersi, amico mio”, ha commentato Dwight.

“E hai bisogno anche di nuovi vestiti”, ha aggiunto Zabrina. “Sembra che tu ci abbia dormito dentro.”

“Infatti è così”, ho replicato io.

“Può dare un’occhiata nel mio guardaroba, se vuole”, ha detto Dwight. “Potrà prendere tutto quello che vorrà quando me ne sarò andato.”

Solo allora mi sono accorto di due particolari. Primo, la valigia accanto al tavolo al quale sedevano Zabrina e Dwight; secondo, gli occhi umidi e arrossati di mia sorella. Dovevo aver interrotto un addio doloroso; doloroso almeno per lei.

“È colpa tua”, mi ha detto Zabrina. “Se ne sta andando a causa tua.”

Dwight ha fatto una smorfia. “Non è vero”, ha protestato.

“Mi hai detto che se non avessi visto quel dannato cavallo…” ha cominciato Zabrina.

“Ma non è stata colpa del signor Maddox”, ha detto Dwight. “Sono stato io a offrirmi di accompagnarlo alle stalle. E comunque, se non fosse stato il cavallo, sarebbe stato qualcos’altro.”

“Se ho capito bene, te ne stai andando allora”, ho detto io.

Dwight mi ha lanciato un’occhiata dispiaciuta. “Devo andarmene”, ha detto. “Penso che se non me ne andrò ora…”

“Non devi andartene per forza”, lo ha interrotto Zabrina. “Non c’è niente, là fuori.” Ha stretto la mano di Dwight. “Se pensi che il lavoro sia troppo pesante…”

“Non è questo”, ha replicato lui. “Il fatto è che il tempo passa e se non me ne andrò subito, non me ne andrò mai più.” Con delicatezza si è liberato dalla stretta di Zabrina.

“Quel dannato cavallo”, ha ringhiato lei.

“Che cosa c’entra il cavallo con tutto questo?” ho voluto sapere.

“Niente…” ha risposto Dwight. “Ho solo detto a Zsa-Zsa…” (Zsa-Zsa? ho pensato. Dio, erano stati più intimi di quanto avessi immaginato.) “… che quando ho visto il cavallo…”

“Dumuzzi.”

“… che quando ho visto Dumuzzi, mi sono reso conto di aver bisogno delle cose normali che ci sono là fuori, nel mondo. Per troppo tempo le ho viste solo grazie a quello.” Ha indicato il piccolo televisore in bianco e nero. Ogni volta che aveva guardato quelle immagini tremolanti, aveva sentito la mancanza del mondo esterno? Sembrava di sì, ma finché non era apparso Dumuzzi non si era reso conto di quanto fosse profondo il suo desiderio.

“Be’ ”, ha detto Dwight con un piccolo sospiro, “adesso devo andare.” Si è alzato.

“Aspetta almeno fino a domani”, ha detto Zabrina. “Si sta facendo tardi. Puoi partire domani mattina.”

“Ho paura che mi metteresti uno dei tuoi filtri nel cibo”, ha risposto con un piccolo, triste sorriso. “E allora non ricorderei più nemmeno perché avevo fatto le valigie.”

Zabrina gli ha rivolto un debole sorriso di rimprovero. “Sai che non farei mai una cosa del genere”, ha risposto. Poi, tirando su col naso, ha aggiunto: “Se non vuoi restare, vai pure. Nessuno ti costringe”. Ha abbassato lo sguardo e si è fissata le mani. “Ma ti mancherò”, ha mormorato. “Vedrai se non ti mancherò.”

“Mi mancherai così tanto che probabilmente ritornerò tra meno di una settimana”, ha detto Dwight.

Zabrina è stata scossa dai singhiozzi. Le sue lacrime sono cadute sul tavolo, grandi come dollari d’argento.

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