Richard Matheson - Appuntamento nel tempo

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Appuntamento nel tempo: краткое содержание, описание и аннотация

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Innamorato di una donna vissuta molto tempo prima, il protagonista di questo libro straordinario comincia a studiarne i ritratti, la carriera, l’ambiente. Finché l’ossessione lo porta a tentare di raggiungere la misteriosa attrice… nel passato. Ma è solo l’inizio dell’avventura. Da questo grande romanzo è stato tratto un film con Christopher Reeve.

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Il senso di vittoria è svanito quando mi sono reso conto che la seconda metà delle mie fatiche sarebbe stata molto più difficile. Attento a non perdermi d’animo, ho provato ad alzarmi. Avevo le gambe così intorpidite che mi è occorso più di un minuto. Le prime cinque volte sono caduto. Poi, quando il sangue ha ripreso a circolare ed è iniziata la sensazione di un milione di spilli che mi trafiggevano le gambe, mi sono tirato in piedi, barcollante.

Mi sono guardato attorno. E adesso? Correre all’hotel mezzo legato, con un solo stivale? L’idea era grottesca. Dovevo slegarmi del tutto. Il mio sguardo si è fermato alla base della baracca, dove c’erano cumuli di pietre tenuti assieme da una malta semisgretolata. In un punto, il muro era parecchio arretrato rispetto alle pietre, e lo spigolo della malta sembrava molto affilato. Ho corso per quanto potevo, mi sono buttato in ginocchio. Chinandomi in avanti, ho cominciato a sfregare la corda contro la malta.

Dopo diversi minuti, la corda ha iniziato a sfilacciarsi. Io ho inspirato e trattenuto il fiato, sperando di allentare ancora di più la corda. Non è servito. Ho ripreso a sfregare contro la malta, più in fretta.

Ho dovuto fermarmi, appoggiare la testa al muro. Dietro i miei occhi danzavano ombre. Stavo per svenire. “Non adesso”, ho pensato; non quando ero così vicino alla liberazione. Ansimavo. “Non partire, Elise”, ha implorato la mia mente. “Ferma il treno. Fra poco arriverò. Fra poco”.

Il pulsare alla testa è diminuito, e ho ripreso a sfregare. Dopo un minuto o poco più, la corda era talmente sfilacciata da permettermi di tenderla al massimo, farla scendere lungo i fianchi, e liberarmene. Mi sono riempito d’aria i polmoni. Viso e collo erano inzuppati di sudore. Ho tolto di tasca il fazzoletto, mi sono asciugato alla meglio. Poi, dopo un’altra, profonda inspirazione, mi sono avviato verso l’hotel.

Dapprima, non vedendo luci, ho pensato di avere preso la direzione sbagliata. Mi sono fermato e girato. Non c’erano luci nemmeno da quella parte. Un brivido. Come sarei riuscito a intuire la direzione giusta? Ho raccolto le idee. La baracca era rivolta verso l’oceano; quindi, la prima direzione che avevo preso doveva essere quella giusta. Voltandomi di nuovo, sono partito al trotto sulla spiaggia.

Ho visto che il terreno cominciava a salire. Prima, nella mia disperazione, non me n’ero accorto. Ho tentato di tenere un buon passo, ma le mie gambe erano colonne di piombo. Ho dovuto fermarmi a prendere fiato, a premere il palmo della sinistra sulla nuca per alleviare il dolore. Ho incontrato un bitorzolo incredibile; pareva che mi avessero inserito sotto le ossa del cranio un pallone da baseball segato in due. Il solo sfiorarlo mi ha strappato un gemito d’agonia.

Qualche attimo più tardi mi sono costretto a riprendere il cammino. Raggiunta la cima della salita, ho visto in lontananza l’hotel: doveva essere almeno a un paio di chilometri, o più probabilmente tre. Con un ruggito di sgomento, mi sono avviato giù per la discesa, fra uno scivolone e l’altro. Giunto in fondo, ho attraversato la spiaggia sino al confine con l’acqua, dove la sabbia era bagnata ma più dura e compatta, e mi sono messo a trotterellare. Ho tentato di cancellare dalla mente ogni dolore e apprensione fissando il tetto dell’hotel. “Elise non è partita” è stato l’unico pensiero che mi sono permesso.

Quando ho raggiunto il sentiero ad assi di legno, ansimavo tanto e avevo le gambe così pesanti che ho dovuto fermarmi, volente o nolente. Di tanto in tanto, a guizzi, il senso di disorientamento andava e veniva quasi con lo stesso ritmo del mio respiro. Ho cercato di analizzarlo, nella speranza di poterne bloccare le continue intrusioni. La colpa doveva essere dello shock di tutto ciò che mi era successo. Ritrovata Elise, sarebbe passato. Il suo amore sarebbe stato la mia ancora per quell’anno.

Prima che la mia mente potesse ribattere con l’idea che forse lei non era più all’hotel, mi sono lanciato al trotto sulle assi, a labbra strette, lo sguardo fisso sull’hotel. “È ancora lì”, ho pensato. “Non può essere partita. La sua carrozza ferroviaria sarà ancora qui. Avrà ordinato di fermarla fino a…”

Mi sono bloccato, investito da un’ondata di stordimento. “Non è vero”. Però i miei occhi vedevano benissimo che era vero. Il binario morto era vuoto.

— No. — Ho scosso la testa. D’accordo, il vagone non c’era più. Ma Elise si era fermata, fosse o non fosse logico. Lo avevo letto, no? Aveva mandato la compagnia teatrale a precederla a Denver. Però lei era ancora lì.

Senza accorgermene, avevo ripreso a correre. Le luci dell’hotel erano minime; quasi tutte le finestre erano buie. Potevano essere le tre o le quattro del mattino. “Non importa”, mi sono detto. “Lei è nella sua stanza, sveglia. Mi aspetta”. Non avrei ammesso nessun’altra possibilità. Non potevo ammetterla. Dentro di me vibrava una paura così immane che avrebbe potuto distruggermi, se solo non l’avessi frenata. “Elise è qui”, ho pensato. Mi sono concentrato su quell’idea, alzando una barriera contro la paura. “È qui. È qui”.

Correndo sulla strada d’accesso all’hotel, mi sono guardato e ho scoperto di essere lurido, arruffato. Se fossi passato per l’atrio in quello stato, forse mi avrebbero fermato, e dovevo raggiungere Elise subito. Ho svoltato a sinistra, sono sceso al Paseo del Mar e ho girato attorno all’angolo dell’hotel. L’imponente facciata bianca era alla mia destra; i miei passi risuonavano forti. Ogni respiro era una pugnalata ardente. “Non fermarti”, ripeteva una voce nella mia mente. “Lei è qui. Tieni duro. Sei quasi arrivato. Corri”. Boccheggiante, ho rallentato. Raggiunta la scala sud, ho preso a salire i gradini, aggrappandomi alla ringhiera. Mi pareva fosse trascorso un secolo da quando eravamo saliti assieme; un milione di anni da quando l’avevo incontrata sulla spiaggia. “Lei è qui”, insisteva la voce. “Corri. È qui”.

La porta della veranda. L’ho spalancata con un gemito di spossatezza, sono entrato, mi sono diretto al corridoio laterale. “Elise è qui. Ti aspetta nella sua stanza. Come hai letto”. I miei passi risuonavano sul parquet. Tutto cominciava a diventare nebbioso, confuso. — Novembre 1896 — ho borbottato disperatamente. — È il novembre 1896. — Ho svoltato nel cortile aperto, sono corso lungo il sentiero. “Elise è qui”. Quando una lacrima mi è scesa giù per la guancia, ho capito che la mia vista era appannata dal pianto. — È qui — ho detto. — “Qui”. — Sono entrato nel salotto comune, ho barcollato fino alla sua porta, e prima di bussare vi sono crollato contro. — Elise!

Ho aspettato, cercando di captare i suoni, col cuore che mi martellava alle orecchie. Ho bussato di nuovo. — “Elise?” — Nessun rumore dall’interno. Ho appoggiato l’orecchio destro alla porta. Lei “doveva” esserci. Stava dormendo. Fra un attimo si sarebbe svegliata e sarebbe corsa ad aprire la porta. Ho bussato un’altra volta, un’altra. Avrebbe aperto, sarebbe stata fra le mie braccia. La mia Elise. Non poteva essere partita. Non dopo quella lettera. “Adesso sta correndo alla porta. Adesso. Adesso. Adesso”.

— Dio! — La verità mi è caduta addosso in un istante. “Era partita”. Robinson l’aveva convinta. Era in viaggio per Denver. Non l’avrei più rivista.

Ogni forza mi ha abbandonato in quell’attimo. Sono crollato lungo la porta, poi sono scivolato lentamente sul tappeto, fissando le macchie confuse che i miei occhi vedevano. Ho alzato le mani al volto e mi sono messo a piangere. Come avevo pianto, una vita prima, nella stanza calda e soffocante del seminterrato. Però allora piangevo di felicità, di sollievo e di gioia, sapendo che avrei raggiunto Elise. Adesso piangevo di dolore, di disperazione, sapendo che non l’avrei mai più ritrovata. Che adesso il tempo facesse pure ciò che preferiva. Non mi importava nulla di morire in un anno o nell’altro. Niente importava più. Avevo perso Elise.

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