Ho cercato di tirarmi su. Inutile. Ero legato così stretto che un respiro profondo mi provocava dolore al petto. Ho continuato a guardare avanti, strizzando le palpebre. Gradualmente il buio si è diradato, e ho visto la luce filtrare dalle crepe dei muri. Sì, ero nel 1896; ero legato nella baracca. Ho tentato di muovere le gambe, ho sussultato: i nodi erano talmente stretti che mi avevano quasi fermato la circolazione del sangue.
— Andiamo — ho detto. Mi sono ordinato di riflettere, di agire. Se solo fossi riuscito ad alzarmi, potevo arrivare a saltelli alla porta, aprirla, forse trovare sulla spiaggia qualcuno che potesse aiutarmi. Ho lottato per sollevare la schiena dal pavimento, rendendomi conto solo allora di quanto fosse freddo. “Il mio vestito deve essere ridotto uno straccio” ho pensato. Un’idea stupida, irritante.
Sono ricaduto giù con un tonfo, urlando al dolore che mi ha dilaniato la nuca. Allora Al mi aveva rotto il cranio, anche se ero rimasto immobile? L’impressione era quella. Ho dovuto tenere chiusi gli occhi a lungo, prima che il dolore passasse. Poi mi è giunto alle narici l’odore della baracca, un misto di legno in decomposizione e terriccio umido. “L’odore della tomba” ho pensato. Il dolore mi ha invaso di nuovo la testa. “Rilassati”. Ho chiuso gli occhi. Il treno era già partito? Elise poteva essersi trattenuta un po’, nella speranza di vedermi ricomparire; era possibile. Dovevo liberarmi.
Ho aperto gli occhi e ho cercato di orientarmi. Mi è parso di vedere il profilo della porta. Stringendo i denti alle nuove fitte di dolore, ho cominciato a spostarmi in quella direzione. Mi sono immaginato mentre strisciavo e mi contorcevo per terra: una visione ridicola, ma non divertente. “Un pesce fuor d’acqua” ho pensato. Lo ero da ogni punto di vista.
Ho dovuto fermarmi. Ansimavo, e ogni inspirazione mi trafiggeva il petto, facendo pulsare ondate di tenebra nella mia testa. “Rilassati, rilassati”. Ormai era più un’implorazione che un ordine. Ho tentato di controllare il respiro, di dirmi che lo spettacolo era lungo, quattro atti; che sarebbe occorso parecchio tempo per smontare le scene e caricare il treno; che, anche al di là di tutto quello, Elise poteva rimandare la partenza della compagnia. Era possibile. Dovevo crederlo. Non c’era…
Ho trattenuto il respiro e sono rimasto immobile. Per diversi secondi (cinque, sei, di più?) ho provato la stessa sensazione che avevo vissuto sdraiato sul letto della camera 527, appena prima di viaggiare all’indietro nel tempo: la sensazione di veleggiare verso il limbo, di non essere in alcun posto, di trovarmi in uno stato di transizione. “Dio, no” ho pensato. “Ti prego, no”. Come un bambino terrorizzato dal buio, spaventato da apparizioni mostruose, sono rimasto fermo, in bilico sull’abisso fra due epoche.
Poi è finita. Ero di nuovo nella baracca, saldamente ancorato al 1896. Non c’è modo di descrivere meglio il fenomeno. È qualcosa che si sente più nella carne che nella mente: la sensazione viscerale di essere in un certo luogo. Ho aspettato che si consolidasse, poi ho ripreso a strisciare verso la porta. Questa volta, ho continuato ad avanzare anche quando l’incapacità del mio petto di espandersi mi ricacciava in gola il respiro, dandomi l’impressione di soffocare.
Quando ho raggiunto la porta, il mio petto era un cumulo di dolori strazianti. “Un attacco cardiaco”, ho pensato; le sensazioni dovevano essere quelle. Ho cercato di scacciare l’idea con un sorriso, ma probabilmente ho fatto una smorfia. “Ci mancherebbe altro”, ho pensato. Ho appoggiato la testa alla porta, aspettando che il dolore scemasse. Poco per volta è diminuito, come il pulsare alle tempie. Ho sollevato le spalle il più possibile da terra e mi sono lasciato cadere a corpo morto contro la porta.
La porta non si è mossa.
— Oh, “no”! — Un gemito. L’avevano chiusa a chiave? Ho fissato la porta, incredulo. Potevo restare prigioniero lì per giorni e giorni. Brividi convulsi mi hanno scosso. Buon Dio, potevo morire di sete. L’idea mi ha ispirato terrore. “Non può succedere”. Era un incubo; presto mi sarei svegliato. Ma anche nel pensarlo, sapevo benissimo di essere perfettamente sveglio.
Mi è occorso un po’ per ritrovare il controllo, per tacitare il terrore e poter pensare di nuovo. Lentamente, a denti stretti, ho ruotato su me stesso fino a premere sul legno le suole degli stivali. Mi sono riposato per diversi istanti, poi ho piegato le gambe il più possibile e ho tirato un calcio.
Ho emesso un gemito di sollievo quando, al terzo calcio, la porta si è spalancata con un forte scricchiolio. Sono rimasto sdraiato, boccheggiante, con un sorriso sulle labbra nonostante il dolore alla testa. C’era la luna; la sua luce pallida si è riversata su me. Ho studiato il mio corpo. La corda correva attorno al petto e alle braccia, attorno alle gambe da cosce a caviglie. Un lavoro da vero professionista.
Lentamente, come un verme gigantesco, sono strisciato fuori. Nel superare la soglia, ho visto che la porta era tenuta chiusa da una spranga di legno che i miei calci avevano fracassato. “Ci fosse stato un vero chiavistello…” Ho respinto l’idea. “Non perdere tempo con paure superflue” mi sono detto. Avevo già abbastanza paure concrete da affrontare. Mi sono guardato di nuovo. L’unico punto da cui poter cominciare era vicino alla mano destra. Contorcendomi, sono riuscito ad afferrare un nodo con la mano; era duro come un sasso. I miei deboli tentativi, gli unici possibili, non sono serviti a nulla. Mi sono chiesto perché mi facesse tanto male la destra, poi ho ricordato di avere colpito Jack.
Mi sono affannato sul nodo con maldestra impotenza. Mi sono fermato all’improvviso, invaso da un insieme di rabbiosa frustrazione e angoscia. — Aiuto! — ho urlato. La mia voce era roca, stravolta. — Aiuto! — Ho aspettato un grido di risposta. C’era solo il rombo lontano della risacca. Ho urlato di nuovo; ho urlato fino ad avere la gola indolenzita. Inutile. In giro non c’era nessuno. Dovevo liberarmi da solo. Mi sono voltato in cerca dell’hotel, ma da quel punto non era visibile. “Elise, non partire” ho pensato. “Aspettami, ti prego, aspettami.”
Per qualche momento ho creduto di scivolare di nuovo, di cadere verso la tenue membrana fra un tempo e l’altro. Sono rimasto immobile finché non è passato; questa volta il fenomeno è stato più breve. Perché accadeva? Per il colpo alla testa? Per la distanza che mi separava dall’hotel? O per gli effetti globali del trauma di tutto ciò che mi era successo?
Avevo paura che il pensarci troppo potesse scatenare ancora il fenomeno. Mi sono studiato attentamente, cercando di scoprire il modo per sciogliermi. Alla fine, ho cominciato a fare pressione sulla corda avvolta attorno alle gambe, nel tentativo di dividere le ginocchia e allentare la corda. Avvicinando fra loro gli stivali, ho ottenuto un punto d’appoggio migliore e sono riuscito a spingere le ginocchia contro la corda con più forza. Con un sorriso, ho scoperto che la tattica funzionava; ormai potevo staccare le gambe l’una dall’altra.
Tentando di ignorare le pulsazioni alla testa e il dolore al petto, ho continuato a muovermi finché non sono riuscito a sollevare la punta dello stivale destro e incunearla sotto la corda. Ho spinto col piede; la punta dello stivale è scivolata fuori. Testardamente, ho ritentato; questa volta ho sentito muoversi la corda attorno alle gambe.
Non so quanto tempo abbia impiegato, ma poco per volta ho fatto scendere la corda, fino a ridurla a un ammasso informe attorno alle caviglie. Ho tentato di estrarre lo stivale destro dal groviglio, ma era impossibile. Dibattendomi (i miei sforzi dovevano avere allentato i nodi sul petto, perché adesso respirare era meno doloroso), ho preso a sfregare i due stivali l’uno contro l’altro, finché quello destro non è rimasto sul terreno. Ho estratto dalle corde il piede destro e lo stivale sinistro. Avevo le gambe libere!
Читать дальше