Una mente maniacale, sicuramente un mostro. Ma con uno straordinario potere, una forza psichica che aveva del demoniaco. Pregò che quel potere si fosse estinto, finito con la sua vita.
Ma sentì un formicolio insidioso e minaccioso sulla nuca.
Childes alzò la testa e scrutò le nebbie, lì dove era caduta la donna. La sua bocca si spalancò lentamente, gli occhi sbarrati, e presa a tremare come e più di prima.
Vide la grossa mano, le dita spesse che si aggrappavano all’orlo del muretto in una morsa carnosa. E la tenevano sospesa.
«No!» esclamò sottovoce, appena un sospiro sommesso. «No, no!»
Negli occhi spenti di Annabel non era forse apparsa una fiammella, un accenno di preghiera?
Childes si issò sulle gambe, cercò brancolante l’appoggio del muro, sembrava proprio che le gambe si rifiutassero di sostenerlo, ma la forza rifluì con il sangue negli arti intirizziti, quasi con dolore.
Rimase un attimo appoggiato al muretto poi barcollò verso la mano, le nebbie riprendevano le loro forme distinte, si aprivano per lasciarlo passare. Lo guardarono remote e impassibili; il ragazzino nudo stringeva qualcosa di bianco e di viscido nel fragile pugno, e tentava di ficcarselo in petto come se potesse sostituire il suo cuore perduto. La donna dipinta si teneva il ventre in cui si intravedevano strani oggetti angolosi, il torace smembrato era macchiato da due grossi ovali di sangue. Le ragazze e la governante erano corpi carbonizzati con le ossa esposte tra le carni annerite. L’uomo in divisa con i suoi due sorrisi, uno sopra al mento, l’altro sotto. Estelle Piprelly, intera, senza un segno, che guardò Childes negli occhi, comunicandogli una improvvisa emozione. Lo guardavano tutti, attendevano qualcosa.
Arrivò dove la mano artigliava la sporgenza del muro. Le dita sembravano funi oscillanti che sopportavano tutto il peso di quel grosso corpo. Vide il polso carnoso, la manica della giacca rimboccata sul braccio gonfio, che spariva nel buio all’altezza del gomito. Childes si sporse dal parapetto. La luna illuminava il viso tondo appena sotto di lui, coperto di liquido scuro e denso che le colava lungo le guance e il mento. Uno degli occhi un foro nero e vuoto che lo fissava orribilmente. L’altro braccio le pendeva lungo un fianco come se fosse inutilizzabile.
«Aiuta… mi!» disse, con la sua voce aspra e gracchiante, e non era un’implorazione.
La guardò, vide la follia in quel viso largo, i capelli grigi sparpagliati nel vento. Ne toccò nuovamente la pazzia, ne sentì il laidume, l’ossessione maniacale e demenziale dell’adorazione della luna, una malsana giustificazione del male che essa amava perpetrare; un’anima malata e crudele, uno spirito maligno e rancoroso. Quella parola ‘aiutami’ era piena di sarcasmo. Childes lo capì e lo sentì poiché ancora una volta era dentro quella mente, che lo riempì di immagini mostruose e aberranti, malate e schifose; ancora la divertiva quel gioco. Il suo gioco, la sua tortura.
Ma un nuovo sentimento si affacciò nella sua mente depravata quando lui le prese la grossa mano.
La paura attraversò quei pensieri tormentati come una lama in una piaga purulenta, quando lui le scalzò il primo dito.
Un gemito terrorizzato al secondo.
Uno strillo disperato quando spinse le ultime due dita e lei cadde, cadde, cadde giù nella valle, il suo corpaccio rimbalzò contro il calcestruzzo del bacino scivolando fino in fondo alla diga.
Childes udì i tonfi sordi del corpo che si sfracellava. Cadde a terra sui lastroni di cemento. Sentì un improvviso sollievo inondargli i sensi, l’anima di colpo liberata da un’opprimente oscura pressione, una rabbia confusa e disperata. Era troppo stordito per piangere, troppo spossato per essere felice. Osservò le nebbie diradarsi e scompanre.
Una sola rimase.
Annabel si chinò e gli accarezzò il viso con le piccole dita gelide. Dita che non c’erano prima. Una luce l’attraversò e divenne poco più di una foschia, poi scomparve nel nulla.
«Illusione!» mormorò parlando a se stesso.
* * *
La luce proveniva dai fari di alcune macchine e dalle torce in fondo al sentiero. Childes la fissò schermandosi gli occhi con una mano. Sentì le portiere delle auto che sbattevano, delle voci, vide apparire delle ombre. Era stranamente curioso di sapere come lo avessero trovato, ma non sorpreso; quella notte niente poteva più sorprenderlo.
Childes non voleva più restare sulla diga, anche ora che le nebbie illusorie si erano disperse e quella rozza mano non stringeva più l’orlo del parapetto. La notte era stata troppo convulsa per non desiderare ora una pace più personale, più solitària. Aveva la testa leggera, e nonostante la confusione mentale, la perplessità acuta, si sentiva quietamente euforico. Aveva bisogno di pensare, di valutare i fatti, ma l’accettazione delle sue capacità straordinarie era totale e completa. Era sicuro che si potessero controllare, utilizzare sotto controllo. Era stata lei a dimostrarglielo, anche se le sue intenzioni erano state malvagie, e la sua follia aveva portato a un uso distorto del potere. Si alzò in piedi e guardò verso la valle, guardò oltre il bacino immobile illuminato dalla luna che non aveva più una luce sinistra e minacciosa, ma tersa e pura. Respirò l’aria fresca e leggermente salmastra; sembrava pulita ora e pareva anche ripulirlo dentro. Si voltò e s’incamminò verso le luci. Overoy fu il primo a raggiungerlo, seguito da Robillard e da due altri poliziotti in divisa.
«Jon!», chiamò il poliziotto. «Stai bene? Abbiamo visto tutto». Sorresse Childes per un braccio.
Lui sbatté gli occhi abbagliato dalle torce.
«Puntatele in basso», ordinò Overoy.
I due agenti li superarono puntando il fascio di luce verso la diga, mentre Robillard ordinava alle auto di abbassare i fari. Il sollievo fu immediato. «Avete visto?» farfugliò Childes incredulo.
«Non molto bene. Un banco di nebbia vi ha parzialmente coperti» rispose Robillard.
Un banco di nebbia! Childes non disse nulla.
Overoy parlò rapidamente, come se volesse anticipare Robillard. «Ti abbiamo visto cercare di salvare quell’altra persona Jon.» Fissò negli occhi Childes con un’espressione severa. Robillard aveva invece un dubbio dipinto in volto ma non fece commenti.
Quasi senza interruzioni Overoy proseguì: «Immagino che avesse tentato di ucciderti prima di cadere. Peccato che fosse troppo pesante, che tu non sia riuscito a trattenerla!» Le parole erano state scelte con cura, come se fosse una deposizione da imparare a memoria.
«Sapevate che era una donna?», chiese Childes.
Overoy annuì. «Avevamo scoperto la sua casa in Inghilterra. Ti ho telefonato un paio di volte ma era sempre occupato. Poi ho preso il volo di mezzanotte, appena in tempo.»
I due agenti illuminavano dall’alto il corpo sfracellato in fondo alla diga.
«Quello che abbiamo trovato in quella casa era un vero arsenale di orrori. Ma c’erano tutte le prove che ci servivano. Era la donna il mostro che cercavamo.» Overoy si fece scuro in volto e aggiunse: «Il cadavere della bambina era sotto il pavimento. Metterla lì era stata una pazzia, prima o poi l’odore della decomposizione l’avrebbe fatta scoprire da qualche inquilino del palazzo. Ma forse non gliene importava più. Forse aveva già capito che non poteva andare avanti così quando è venuta qui. Era pazza furiosa, è questa forse l’ironia della cosa.»
Childes guardò l’ispettore con curiosità.
«È così che l’abbiamo scovata. Il suo nome era nella lista di pazienti e inservienti del manicomio. Era un’infermiera, ma doveva essere più pazza dei matti a cui doveva badare. Cristo! Avresti dovuto vedere la roba che abbiamo trovato nella sua stanza; roba sull’occulto, la mitologia; simboli, amuleti. Ah, e un mucchietto di pietre di luna, le saranno costate un patrimonio. Se ognuna di quelle era per un’altra vittima…». Overoy scrollò le spalle.
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