Ora Childes si era leggermente avvicinato a lei. «Continuo a non capire, quale signora?»
Fece una smorfia, o forse era una sorta di sorriso malvagio. «Ma come, non lo sai? Non hai sentito il suo potere divino dentro di te? Il potere della Dea della Luna che cala e che cresce con i cicli del pianeta? Non senti la sua forza nelle nostre menti? Hai anche tu il ‘potere’, bello mio. Non capisci?»
«Le visioni…»
Diventò impaziente, Childes sentiva la sua irritazione. «Chiamala come ti pare, non ha alcuna importanza. Quando il ‘potere’ è in comunione, quando le nostre menti sono unite … come adesso, la sua forza è meravigliosa, così… potente.» Il pensiero la lasciò senza fiato e dondolò sui piedi, ammirando di nuovo la sfera bianca nel cielo.
Il puzzo della sua follia era rancido.
Si immobilizzò e abbassò la testa. «Non ti ricordi più del nostro giochino con le macchine?»
«I computer?» Scosse la testa perplesso. «Tu hai fatto apparire la parola MOON sugli schermi!»
Rise, e il suono era minaccioso. «Tu hai fatto apparire la parola nelle loro teste! Non sulle macchine, caro il mio sciocco. Lo abbiamo fatto insieme, tu e io, abbiamo fatto vedere alle tue brave ragazzine quello che volevamo! E io ho fatto vedere a te ciò che volevo.»
Illusioni! Erano tutte illusioni. E forse era meglio così, era più normale, più logico, sapere che niente di tutto ciò era vero.
«Ma perché?» la pregò. «In nome di Dio perché sono dovute morire?»
«Non per Dio, ma per la nostra Dea. Agnelli sacrificali, bello mio. Per la loro energia spirituale, che non era un granché, comunque. Era interessante nella donna invece, quella a cui ho rotto il collo.»
«La signorina Piprelly?»
Scrollò le spalle immense. «Se è così che si chiamava. Hai capito di che energia parlo, vero? La chiameresti forza psichica, o qualche altra parolona così. L’energia che è racchiusa qui dentro.» Si toccò la fronte con un grosso dito e Childes rabbrividì nel constatare quanto fossero grandi le sue mani. Mani potenti, gonfie come il suo corpo.
«Ma quella della donna era niente in confronto alla tua, bello mio. Oh no, la tua è speciale. Ti ho guardato dentro, ho toccato il tuo spirito. Tanta forza, e trattenuta così a lungo! Ma ora appartiene a me.»
Sogghignò ancora e si avvicinò.
«E tutti gli altri?» chiese Childes, che aveva bisogno di tempo affinché la rabbia gli prestasse forza. «Perché li hai mutilati in quel modo?»
«Ho assaggiato le loro anime attraverso le loro carni interne. Era il solo modo, capisci bello mio? Li ho svuotati e poi riempiti di nuovo, ma non con i loro stessi organi … no, no, altrimenti gli organi si sarebbero ripresi l’anima, e la loro anima apparteneva alla Dea. Ma ho lasciato loro una pietra, la Sua presenza materiale sulla terra. L’hai conosciuto il suo spirito terrestre, vero? Quella fiammella azzurra che è la sua essenza. Era il mio dono a quegli sfortunati che dovevano morire per lei.»
Pazza. Era completamente pazza. E si era avvicinata molto, troppo.
Un terrore muto e gelido lo serrava con dita d’acciaio, immobilizzandolo mentre lei tendeva una di quelle grosse mani verso di lui. Le dita si schiusero lentamente, il palmo rivolto in su in modo che la luna ne illuminasse la superficie.
«Ne ho una anche per te» sibilò, sorridendo per tutto quanto era implicito nell’offerta.
Una minuscola pietra di luna giaceva nella sua mano aperta, ma forse era la mente di quella donna folle ad agire sulla sua, impiantandovene il pensiero, l’illusione. Era indubbio che la donna possedeva una forza mentale incredibile. Dentro la gemma un fulgore, una fosforescenza azzurra che la luce della luna rendeva ancora più vivida. E in quella luce egli ripercorse nuovamente tutte le morti.
Con un grido di rabbia Childes colpì la mano protesa e la pietra volò in aria, una minuscola stella cadente che sparì subito nel vuoto della valle.
La folle donna che aveva in sé quella temibile energia rimase immobile in silenzio, la mano sempre protesa, il volto dagli occhi in ombra insondabile. Anche Childes rimase inchiodato, l’aria tra di loro sembrava pericolosamente carica, una corrente insidiosa pareva scorrere dall’uno all’altro. I peli gli si drizzarono sulla pelle. Un pensiero gli esplose nella mente e lo fece barcollare.
Amy era riversa a terra dietro il basso muretto accanto alla strada, con il viso pieno di frammenti taglienti di vetro, il collo ritorto in modo strano, la testa contro un tronco d’albero, la bocca aperta da cui colava sangue schiumoso.
«Noo!» urlò. Il pensiero svanì.
La scura fessura sul viso della donna era un ghigno.
Si coprì il volto con le mani appena lo colpì un’altra visione.
Jeanette appesa sulle scale, il collo strozzato dal cappio della cravatta, la carne tumefatta che premeva sui bordi. La lingua gonfia le usciva dalla bocca allungandosi come un orrido verme violaceo che le strisciava lungo il mento. Gli occhi sporgevano dalle orbite, prima uno poi l’altro uscirono dalle cavità e rimasero appesi per i nervi contro le guance. Un rivolo di liquido giallastro le colò tra le gambe macchiandole un calzino bianco, poi cadde gocciolando nella tromba delle scale.
«Non è reale!» urlò ancora.
Gabby sdraiata, il piccolo corpo bianco, nudo e immobile, come la morte stessa. Lo stomaco squarciato, le viscere appiccicose penzolanti, palpitanti e sguscianti come orrendi parassiti. La bocca si aprì e ne uscirono altre cose striscianti, portandosi dietro la sua piccola esistenza. Le dita erano state mozzate, anche i piedi erano senza dita. Lo chiamava. Papaaà!
Papaaà! Papaaà!
«ILLUSIONE!» gridò forte.
Ma quella cosa che lo sfidava su quella diga rideva, una risata profonda e malefica quanto la mente sconvolta che la emetteva.
La testa gli fu scagliata all’indietro colpita da una forza invisibile. Si toccò la guancia bruciante e sentì caldo. Eppure non si era mossa. Il suo ridacchiare lo tormentò come le fredde dita d’acciaio che lo toccavano stringendogli forte i testicoli. Il dolore lancinante lo fece piegare in due.
«Illusione, bello mio?» disse l’orrenda voce.
Strillò e cadde a terra quando la mano invisibile diventò rovente e gli penetrò nell’ano, bruciandolo su fino alle viscere, stringendogli gli intestini in una morsa di fuoco.
«Illusione?» ripeté.
Malgrado il dolore fosse sovrumano Childes capì che non era realtà; la terrificante intensità del dolore scacciava persino la paura, e con essa quello spaventoso controllo che la donna esercitava su di lui.
Il dolore cessò appena ebbe compreso questa verità. Ma era spossato e accasciato contro il parapetto. Fissò la forma immobile e nera della donna.
«Illusione» ribadì senza più fiato.
La sua ira lo avvolse come una raffica di vento, schiacciandolo al suolo. Ebbe una sensazione pungente agli occhi e vedeva sfocato, si strappò via le lenti a contatto che caddero a terra, due frammenti di plastica accartocciati. Cercò di alzarsi in piedi aggrappandosi al parapetto, gli occhi lacrimavano.
Una pressione sconosciuta lo teneva inchiodato, ma Childes lottò, agguantando l’orlo del parapetto con una mano. Non è reale, non è reale, continuava a ripetere. Poi fece un tentativo per colpire quel mostro. Non con il corpo. Non con i pugni. Con la mente, le tirò un colpo con la mente. Fu sorpreso di vederla oscillare per un attimo.
Lei lo aggredì di nuovo e Childes indietreggiò, sbattendo la schiena contro il parapetto. Ma stavolta gli attacchi non erano così duri, erano meno efficaci.
Sentiva delle voci, distanti e un po’ vaghe. Erano dentro la sua testa, irreali come i pensieri brutali che lei gli inviava. Childes la colpì di nuovo, mentalmente, e la sentì accusare il colpo. Era impossibile, lui sapeva che era impossibile, ma le stava facendo male.
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