L’ultima annotazione del diario, che s’interrompeva a metà di una frase, era sullo stesso tono:
Oggi ho sorpreso Tiberio mentre faceva annotazioni con l’inchiostro nero su un registro del tipo usato per la contabilità. Il suo “Libro cinquanta”? Il Grande Cifrario? Ho intravisto una pagina, interamente piena di simboli astronomici e astrologici (è possibile che ce ne siano cinquanta?) prima che lui lo chiudesse di scatto e mi accusasse di spiarlo. Ho cercato di fargli cambiare argomento, ma lui non ha voluto parlare d’altro.
Perché torno da lui? Quell’uomo è un genio… anzi, un paragenio… ma è anche un paranoico!
Ha agitato minacciosamente il registro verso di me, e ha ridacchiato: “Forse vorresti entrare qui di nascosto, su quei piedini silenziosi, e rubarmelo! Sì, perché non lo fai? Significherebbe soltanto la tua fine, paramentalmente parlando! Non sentiresti alcun male. Oppure lo sentiresti?”
Sì, mio Dio, è ora che me
Lì il diario si interrompeva bruscamente.
Franz sfogliò le ultime pagine, tutte vuote, e poi sollevò lo sguardo in direzione della finestra, anche se dal letto si vedevano soltanto i muri, entrambi privi di qualsiasi segno particolare, dei due grattacieli. Gli venne in mente come tutto quel che incontrava fossero bizzarre fantasie sugli edifici: le inquietanti teorie di De Castries, Smith che vedeva San Francisco come una “mega-necropoli”, l’orrore di Lovecraft per i grattacieli di New York, i grattacieli del centro che Franz stesso aveva visto dal terrazzo di casa sua, il mare di tetti che aveva scrutato da Corona Heights, e lo stesso palazzo in cui abitava: quel vecchio edificio malconcio, con i corridoi bui e l’androne cavernoso, gli strani condotti d’aerazione e gli sgabuzzini, le finestre nere e i nascondigli.
Franz si preparò un altro caffè (ormai era giorno fatto) e tornò a letto, con alcuni libri presi dagli scaffali accanto alla scrivania. Per far loro posto, dovette buttare sul pavimento altri colorati fascicoli ricreativi. Scherzò con la sua Amante dello Studioso: — Diventi più tenebrosa e intellettuale, mia cara, ma non invecchi di un giorno e resti sempre sottile come quando eri ragazza. Come fai?
I nuovi libri erano una buona rappresentativa di quella che lui chiamava la sua biblioteca di consultazione del sovrannaturale. In maggioranza non erano i testi sull’occulto usciti negli anni più recenti, che nella stragrande maggioranza erano opera di ciarlatani e di impostori a caccia di quattrini, o di ingenui illusi che non conoscevano neppure la frangia erudita e accademica della crescente marea della stregoneria (e Franz era molto scettico anche nei confronti di quest’ultima), bensì libri che abbordavano il sovrannaturale in modo indiretto, ma su basi assai più solide. Li sfogliò rapidamente, con attenzione e con divertimento, mentre sorseggiava il caffè fumante. C’erano L’occulto subliminale del professor D.M. Nostig, libro curioso e intensamente scettico che demoliva rigorosamente tutte le affermazioni dei parapsicologi universitari e tuttavia trovava ancora un residuo inesplicabile; la spiritosa e profonda monografia di Montague, La burocrazia bianca, con la tesi che la civiltà era asfissiata e mummificata dalla burocrazia e dai documenti, burocratici e non, e dalla propria auto-osservazione, che diveniva una sorta di regressione all’infinito; le copie preziose e malconce di due volumetti estremamente rari, considerati spurii da molti critici, Ames et fantômes de douleur del marchese De Sade e Knockenmädchen in Pelze (mit Peitsche) di Sacher-Masoch; De profundis di Oscar Wilde e Suspiria de profundis (con “Le Tre Signore del Dolore”) di Thomas De Quincey, il vecchio mangiatore d’oppio e metafisico, entrambi libri “normali”, ma stranamente legati da qualcosa di più dei titoli; Il caso Mauritius di Jacob Wasserman; Viaggio al termine della notte di Céline; parecchi numeri del periodico Gnostica di Bonewist; Il glifo del ragno nel tempo, di Mauricio Santos-Lobos; e il monumentale Sesso, morte e paura del soprannaturale di Frances D. Lettland.
Per molto tempo la sua mente, fresca di energie del mattino, sfrecciò qua e là, beata nel bizzarro mondo evocato e sostenuto da quei libri, da De Castries e dal diario, e dai nitidi ricordi delle strane esperienze del giorno prima. Davvero, le città moderne erano i supremi misteri del mondo, e i grattacieli erano le loro cattedrali laiche.
Nello scorrere il poema in prosa delle Signore del Dolore in Suspiria, Franz si chiese, e non per la prima volta, se quelle creazioni di De Quincey avessero qualche collegamento con il cristianesimo. Certo, Mater Lachrymarum, Nostra Signora delle Lacrime, la sorella maggiore, ricordava la Mater Dolorosa, un nome della Vergine, e anche la seconda sorella, Mater Suspiriorum, Nostra Signora dei Sospiri… e perfino la terribile sorella più giovane, Mater Tenebrarum, Nostra Signora delle Tenebre. (De Quincey era partito con l’idea di scrivere un intero libro su di lei, Il regno delle tenebre, ma sembrava che non l’avesse mai fatto: quello sì che sarebbe stato interessante!) Ma no, i loro precursori venivano dal mondo classico (erano parallele alle tre Parche e alle tre Furie) e dai labirinti della coscienza, dilatata dalle droghe, dell’autore inglese, gran bevitore di laudano.
Intanto Franz aveva deciso come trascorrere la giornata, che prometteva di essere piuttosto bella. Per prima cosa, cercare quell’elusivo Rodi 607, e come inizio procurarsi la storia del palazzo anonimo in cui abitava, 811 Geary Street. Sarebbe stata un’ottima ricerca… e Cal e Gunnar ci tenevano a sapere qualcosa. Poi doveva tornare a Corona Heights, per controllare se da lassù aveva visto davvero la finestra del suo appartamento. Poi, nel pomeriggio, andare a trovare Jaime Donaldus Byers (prima telefonargli). E la sera, naturalmente, il concerto di Cal.
Sbatté le palpebre e si guardò intorno. Nonostante la finestra aperta, la sua stanza era piena di fumo. Con una risata di deprecazione, spense meticolosamente la sigaretta sull’orlo del portacenere pieno.
Il telefono squillò. Era Cal, che lo invitava a scendere per la piccola colazione. Franz fece la doccia, si rase la barba, si vestì e scese.
Sulla soglia, Cal aveva un’aria così dolce e così giovane nel vestito verde, con i capelli pettinati a coda di cavallo, che Franz avrebbe voluto abbracciarla e baciarla. Ma si accorse che aveva ancora la sua aria distaccata e pensierosa del tipo “mi conservo intatta per Bach”, e si fermò.
Cal disse: — Ciao, caro. Ho dormito proprio dodici ore, come avevo minacciato orgogliosamente. Dio è misericordioso. Ti vanno, anche oggi, le uova? Per la verità è quasi ora di pranzo. Versati da solo il caffè.
— Non fai più esercizi, oggi? — chiese Franz, lanciando un’occhiata all’organo elettronico.
— Sì, ma non con quello. Nel pomeriggio suonerò tre o quattro ore con il clavicembalo del concerto.
Franz bevve il caffè con la panna e seguì la poesia del movimento di Cal, che, con aria sognante, rompeva le uova: un inconsapevole balletto di ovali bianchi e di polpastrelli sottili, un po’ appiattiti dai tasti. Si scoprì a paragonarla a Daisy e perfino alla sua Amante dello Studioso. Quest’ultima e Cal erano entrambe snelle, intellettuali, piuttosto taciturne, chiaramente toccate dalla Dea Bianca, sognanti ma disciplinate. Anche Daisy aveva avuto un tocco della Dea Bianca: poetessa, disciplinata anche lei, si era conservata altrettanto intatta… per un tumore al cervello. Franz si affrettò ad allontanare dalla mente il pensiero.
Ma l’aggettivo che si addiceva a Cal era sicuramente Bianca. Non era una Signora delle Tenebre, ma una Signora della Luce, e in eterna opposizione con l’altra: come lo Yang contro lo Yin, come Ormuzd contro Ahriman… Sì, nel nome di Robert Ingersoll!
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