E aveva davvero l’aria di una scolaretta, e la sua faccia era una maschera di gaia innocenza e di buon comportamento. Ma poi Franz ricordò la sua reazione al primo brano di un concerto. Lui le stava seduto vicino, un po’ da una parte, e così aveva potuto osservarla di profilo. Come per una magìa improvvisa, Cal era diventata una persona che prima lui non aveva mai visto, e che per un momento, non avrebbe più voluto rivedere. Aveva chinato il mento contro il collo, aveva dilatato le narici, il suo occhio era diventato onniveggente e spietato, le labbra si erano strette piegandosi quasi malignamente agli angoli, verso il basso, come una spietata maestra di scuola, ed era stato come se dicesse: “Adesso, statemi bene a sentire, voi archi e anche lei, signor Chopin. Cercate di suonare perfettamente, altrimenti io…!” Era la sua aria della giovane professionista.
— Mangiale finché sono calde — mormorò Cal, mettendogli davanti il piatto. — Ecco il toast. È già imburrato.
Dopo un po’, gli chiese: — Come hai dormito?
Lui le parlò delle stelle.
Cal commentò: — Sono lieta che tu creda in qualcosa.
— Sì, è vero, in un certo senso — dovette ammettere Franz. — San Copernico, almeno, e Isaac Newton.
— Mio padre imprecava anche su di loro — gli disse Cal. — Una volta, mi ricordo, addirittura su Einstein. Anch’io avevo incominciato a farlo, ma mia madre mi aveva dissuasa gentilmente. Secondo lei, era troppo da maschiaccio.
Franz sorrise. Non parlò delle letture di quel mattino né degli eventi del giorno prima: non gli sembravano argomenti adatti, per il momento.
Fu Cal a dire: — Mi è sembrato che Saul sia stato molto carino, ieri sera. Mi piace come flirta con Dorotea.
— Gli piace fingere di scandalizzarla.
— E a lei piace fingersi scandalizzata — confermò Cal. — Credo che le regalerò un ventaglio, per Natale, solo per avere la gioia di vedere come l’adopera. Però non so se mi fiderei di lasciare Saul da solo con Bonita.
— Chi, il nostro Saul? — chiese Franz, con uno stupore simulato solo in parte. Gli riaffiorò il ricordo, nitido e fastidioso, della risata che gli era parso di udire sulle scale, la mattina precedente: una risata viva, pruriginosa, con un sottinteso di sesso e di contatti fisici.
— La gente rivela sfumature di comportamento inaspettate — osservò lei, placida. — Tu sei pieno d’energia, questa mattina. Quasi invadente, ma ti fermi in considerazione del mio umore. Però, sotto sotto, sei pensieroso. Che progetti hai, per oggi?
Franz glieli disse.
— Mi sembra un buon programma. Ho sentito dire che la casa di Byers è una roba spaventosa. O forse intendevano dire che è esotica. E mi piacerebbe davvero sapere qualcosa di Rodi 607. Sai, sbirciare da dietro la spalla dell’“intrepido Cortez” e vedere la cosa, quello che è, “silenziosa su una vetta del Darien”. E scoprire la storia di questo palazzo, come si chiedeva Gunnar. Sarebbe affascinante. Bene, adesso dovrei prepararmi.
— Ci vediamo, prima del concerto? Ti accompagno io? — domandò Franz, alzandosi.
— No, non prima del concerto, credo — disse Cal, pensierosa. — Dopo. — Gli sorrise. — È un sollievo sapere che ci sarai. Fa’ attenzione, Franz.
— Fa’ attenzione anche tu, Cal.
— Quando ho un concerto, mi avvolgo tutta nella bambagia. No, aspetta.
Andò verso di lui, a testa alta, continuando a sorridere. Franz l’abbracciò, prima di baciarla. Cal aveva le labbra morbide e fresche.
Un’ora più tardi, un giovane serio e simpatico, nell’archivio municipale, informò Franz che l’811 Geary Street veniva designato nel suo ufficio come Isolato 320, Lotto 23.
— Per quanto riguarda la precedente storia del lotto — disse — dovrebbe andare all’Edilizia. Là dovrebbero saperlo, perché hanno i registri della tassa di edificazione.
Franz attraversò il grande ed echeggiante corridoio di marmo, dal soffitto altissimo, ed entrò nell’ufficio dell’assessorato all’edilizia, che fiancheggiava l’ingresso principale del municipio. I due grandi idoli civici, pensò, nonché le nostre guardie: le scartoffie e le tasse.
Una donna dall’aria preoccupata e dai capelli rossi che cominciavano già a dare sul grigio gli disse: — Deve andare all’ufficio licenze edilizie nell’altro palazzo del municipio, dall’altra parte della strada, alla sua sinistra uscendo, e vedere quando è stata presentata la domanda di costruzione. Con questa informazione, potremo subito aiutarla. Dovrebbe essere semplice. Non sarà necessario risalire a tempi molto lontani: quella zona è crollata tutta nel 1906.
Franz eseguì, pensando che quella faccenda si era trasformata da una fantasia a un balletto di edifici. La ricerca su un semplice palazzo l’aveva portato a qualcosa che si poteva definire il “minuetto del girotondo burocratico”. Senza dubbio, a questo punto, gli scocciatori (tali, infatti, erano, agli occhi degli impiegati, gli utenti del servizio pubblico) dovevano scocciarsi e lasciar perdere… ma lui li avrebbe fregati tutti! Era ancora traboccante di energia, come aveva osservato Cal.
Sì, un balletto nazionale di tutti gli edifici, grandi e piccoli, grattacieli e baracche, e tutti sorgono e stregano per un po’ le nostre strade, e alla fine crollano, con l’aiuto dei terremoti oppure no, al suono della proprietà, del denaro e dei documenti, con un’orchestra sinfonica di milioni di impiegati e di burocrati, tutti intenti a leggere e a scarabocchiare con diligenza i loro pezzetti di carta appartenenti alla partitura infinita di quel concerto, che alla caduta degli edifici finiscono nelle macchine tranciadocumenti, schierate in riga, come file di violini, però non sono Stradivari ma Stracciafogli. E su tutto cade la nevicata di pezzetti di carta.
Nell’altro palazzo, di stile moderno con i soffitti bassi, Franz rimase piacevolmente sorpreso (ma il suo cinismo subì un affronto) quando un giovane cinese corpulento, debitamente invocato mediante la formula rituale dei numeri dell’isolato e del lotto, in due minuti gli porse un vecchio modulo prestampato, compilato con un inchiostro che era diventato marrone, e che incominciava con: “Richiesta di licenza edilizia per la costruzione di un edificio di mattoni a 7 piani con struttura d’acciaio sul lato sud di Geary Street, 8 metri a ovest di Hyde Street, per il costo preventivato di dollari 74.870, destinato a uso albergo”, e finiva con: “domanda presentata il 15 luglio 1925”.
Il primo pensiero di Franz fu che Cal e gli altri avrebbero tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere che l’edificio aveva una struttura d’acciaio: se l’erano chiesti spesso, quando avevano parlato di terremoti, e non erano mai riusciti a trovare una risposta soddisfacente. Il suo secondo pensiero fu che l’edificio era molto recente, quasi una delusione: la data di costruzione era quella della San Francisco di Dashiell Hammett… e di Clark Ashton Smith. Comunque, i grandi ponti non erano stati ancora costruiti, e tutto il loro lavoro lo sbrigavano i traghetti. Cinquant’anni erano un’età rispettabile.
Franz copiò quasi tutti i dati scritti in inchiostro marrone, restituì il documento al giovanotto grasso (che, tutt’altro che imperscrutabile come voleva la tradizione dei cinesi da romanzo, sorrise) e tornò all’ufficio dell’assessorato, facendo dondolare baldanzosamente la borsa. La donna dai capelli rossi era andata a preoccuparsi altrove, e due vecchietti claudicanti ricevettero le sue informazioni con aria dubbiosa ma alla fine si degnarono di consultare un computer chiedendosi scherzosamente se funzionasse. Comunque, sotto l’aria ironica, si vedeva benissimo che provavano un senso di reverenza.
Uno dei due premette vari pulsanti e poi lesse su uno schermo, invisibile al pubblico: — Ecco, licenza concessa il 9 settembre 1925, costruito nel 1926. Costruzione ultimata in giugno.
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