«Tracey», disse, facendo un passo verso di lei. «Io non volevo dire questo. Volevo dire…»
«Lo so», lo interruppe lei, con un improvviso sorriso, anche se sul suo viso era scesa una lacrima. «Lo so. Ma sembra che tu non voglia capire che non puoi farci niente. Non puoi scappare e sei troppo buono per finire come Brian.» Si avvicinò a lui e gli prese le mani. «Devi imparare ad andare avanti, Don. Come faccio io, insomma. Devi imparare ad andare avanti.»
Lo abbracciò. Poi alzò il viso e lo baciò, e lui assaporò le sue labbra, la sua tenerezza, e per un attimo, durante quel bacio, pensò che forse aveva ragione lei.
Ma finì presto.
Sempre stringendola, scosse la testa.
«Tracey, ti stai sbagliando.»
«Riguardo a che cosa, veterinario?»
«Io ho fatto davvero qualcosa.»
Joyce spostò la panca che si trovava vicino al tavolino e la spinse contro la porta. Poi rovesciò il tavolino con tutto quanto c’era sopra, facendo cadere bottigliette di profumo e lozioni, il portagioielli, una lampada e alcune statuette cinesi; non emise nemmeno un gemito quando una spazzola dall’impugnatura d’avorio le sfuggì di mano e cadde rimbalzando sul suo piede scalzo.
Stava singhiozzando in silenzio, maledicendo i lunghi capelli che continuavano a caderle sugli occhi, maledicendo Norman per non essere lì nel momento del bisogno.
Nell’ingresso — rumore di zoccoli, lento e costante.
Lì vicino c’era una poltrona. Non poteva raggiungere il cassettone, non poteva arrivare fino al letto, così si lasciò cadere per terra, coprendosi la testa con le mani per non ascoltare quella cosa che si muoveva verso la camera, per non vedere la cortina di nebbia che scivolava sotto la porta e si diffondeva sopra al tappeto.
Poi udì qualcos’altro e la testa si drizzò, le mani caddero sul grembo e gli occhi si spalancarono, mentre la bocca si apriva in un urlo strangolato e silenzioso.
Uno strano rumore, gentile, sordo e profondo — la cosa nell’ingresso le stava dicendo che stava per arrivare.
Erano ancora vicino al laghetto e Tracey si stava davvero arrabbiando.
«Adesso devi ascoltarmi», insistette Don. «Solo per un minuto, va bene?»
«Don, io sto cercando di aiutarti. Non sono un’esperta, santo cielo, ma tu…»
«Una volta ti ho chiesto se anche tu avevi un grande desiderio, ti ricordi?»
I suoi occhi si mossero da una parte e poi dall’altra prima di ritornare a fissare il suo volto. «Sì.»
«Ti dirò una cosa…» Un attimo di esitazione mentre lui cercava le parole giuste per dire qualcosa che avesse un senso, per evitare che negli occhi della ragazza ritornasse quel lampo di paura. «Io credo che un desiderio non sia una cosa facile da spiegare. È esattamente quello che tu vuoi che sia. Uno può desiderare di essere sommerso da una pioggia di un milione di dollari, un altro forse di riuscire a prendere sempre voti altissimi senza mai fare un compito. O magari c’è gente che ha desideri più importanti, qualcosa che desidera davvero ardentemente — come tu e il tuo flauto, ad esempio. Tu vuoi fare dei dischi e dei concerti e scrivere la musica più bella del mondo, non è vero?»
Lei annuì un po’ confusa.
«E io voglio diventare un veterinario. Accidenti, cosa c’è che non va in un veterinario? Ma io lo desidero ardentemente, me lo sogno perfino, non riesco a pensare ad altro, ma santo cielo, gli … gli unici amici che sembrano capirmi sono quelli appesi al muro.»
Smise di parlare e cercò di distogliere lo sguardo, ma lei non lo lasciò andare, si limitò ad abbracciarlo ancora più forte per costringerlo ad andare avanti.
«Io parlo con loro», continuò in un bisbiglio imbarazzato. «Io racconto loro molte cose. Tutto. Le mie storie, capisci? E anche di Sam, dei miei, e di quei dannati Brian e Tar, e anche un po’ … be’, direi tanto su di te.»
Le lanciò un’occhiata dura, giusto per vedere se stava ridendo. Ma non stava ridendo; stava piangendo.
«Avevo bisogno di un amico, Trace. Sembrava che il mondo mi stesse crollando addosso e avevo bisogno di un amico, così ne ho scelto uno. Un poster. Un cavallo. Io…» Guardò al di sopra della sua testa, verso l’oscurità. «Ho fatto in modo che venisse da me.»
Allora capì: lo capì dai suoi occhi, dal modo in cui le tremavano le labbra, nonostante il suo tentativo di tenerle ferme con un dito. Poi i suoi occhi si rischiararono e lui capì qualcos’altro — lei gli credeva.
Credeva davvero che lui avesse ucciso Tar.
Non disse nulla quando lui l’allontanò da sé; quando stese la mano per fermarla, però, ebbe un gesto di reazione; quando le sorrise per dimostrarle che andava tutto bene e che non doveva avere paura, lei gli sorrise con il viso pallido e rigido.
«Va tutto bene», disse lui.
Il vento si era fatto più insistente e attorno a loro, sopra di loro, scuoteva i rami e faceva volare le foglie, provocando strani giochi d’ombra sulla superficie del laghetto. Dalla zona ovest della città si avvicinavano i lampi.
Lui guardò oltre l’acqua, lungo il sentiero e poi nella stradina scura che conduceva al campo di football. Non era molto sicuro di volerlo fare, ma ormai era troppo tardi per fermarsi. Tracey aveva diritto di sapere, altrimenti sarebbe scappata via come tutti gli altri, sarebbe tornata da Jeff lasciandolo solo.
«Vieni qui», disse con dolcezza, come se stesse parlando con un amico troppo timido per abbandonare la notte e dirigersi verso la luce che iniziava a illuminare l’aria gelida.
Tracey lanciò un’occhiata verso l’uscita, con il corpo pronto a correre nel caso si fosse avvicinato di un solo passo.
«Coraggio», disse ancora con dolcezza. «Sono io, ti ricordi?»
Sfere bianche danzavano nell’acqua, e ci fu un momento nel quale anche il laghetto diventò circolare, allungando i contorni del ragazzo, confondendo i due corpi sulla riva, scomparendo in un’esplosione di azzurro pallido quando la luce si insinuò sopra la cima degli alberi.
Lui aspettò.
Tracey allungò una mano.
«Forza, coraggio!» bisbigliò lui, come parlando a un cucciolo.
Tracey ricacciò indietro una lacrima.
Cominciò in un lampo e lui non fu tanto sicuro di averlo udito davvero, poi avvertì la presenza di Tracey di fianco a lui; gli aveva afferrato saldamente un braccio e lo fissava negli occhi con tono di sorpresa.
Dal lato esterno del sentiero proveniva un rumore di zoccoli lento e continuo; forse erano i tuoni, ma continuò anche dopo, calmo e vuoto, ferro contro ferro.
Quando lo vide passare attraverso la zona illuminata più lontana, Tracey appoggiò la bocca al braccio di Don. Più scuro delle tenebre. La testa lucente, dondolava, le zampe si alzavano come se volesse impennarsi, mentre dai fianchi saliva un misto di nebbia e di lampi verdi.
«Don», fu tutto quello che riuscì a dire.
Ma lui era troppo intento a guardare lo stallone. Lo vide muoversi in mezzo alle nuvole di fumo da lui stesso prodotte, vide i suoi zoccoli che diffondevano lampi verdi, vide i suoi occhi verdi che lo fissavano e finalmente capì.
Gli zoccoli risuonavano.
La nebbia si faceva più fitta.
Quando raggiunse il lato opposto del laghetto, si fermò, sbuffò e scalciò, lanciando scintille verso la luce.
«Non è un trucco, vero?» disse Tracey, muovendosi fino a trovarsi praticamente dietro di lui.
Il tuono si fece più forte, più vicino, e scompigliò le foglie.
Don scosse la testa.
Era lì, e stava aspettando e non gli avrebbe tolto gli occhi di dosso, non avrebbe mosso un solo muscolo; la criniera era immobile nonostante il vento che sollevava i capelli e li trasformava in aghi al contatto con gli occhi.
«Oh, mio Dio … Tar», mormorò Tracey, con un grido disperato nella voce. «Oh, mio Dio, Don, tu parlavi sul serio.»
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