Cedetti, ridendo mentre cadevo all’indietro sul letto, contro le gambe di Harker (che, a causa di ciò che avevo fatto, non si svegliò né si mosse). Lì le permisi di prendermi come aveva fatto prima, leccando il sangue e mettendone altro nelle zone più morbide finché caddi ancora, gridando, nel vuoto beato…
Feci lo stesso per lei, sebbene, lo confesso, non fosse del tutto di mio gusto. Né lei sembrò trarne piacere quanto me; chiaramente preferiva essere quella che dava piuttosto che ricevere e, quando la piccola ferita dell’inglese cessò di sanguinare, il suo desiderio sembrò venire meno. Ma io riuscii a portarla in uno stato di ebbrezza e, dopo di ciò, giacemmo arrossate e calde una nella braccia dell’altra sopra l’avvocato che russava.
«Ora», disse lei piano, «vieni con me nella mia stanza. Dirò a Dorka di aggiustare alcuni dei miei vestiti per te, affinché tu li possa indossare quando andremo a Londra. E, quando saremo là, ti comprerai tutti gli abiti e i gioielli che desideri, e poi ne comprerai altri ancora».
Andai con lei nelle sue stanze e provai un vestito dopo l’altro, guardandomi in uno specchio che teneva Dorka. Che piacere! I vestiti erano tutti nuovissimi, all’ultima moda, con una crinolina sul didietro e tutti di gran gusto (sebbene fossero leggermente troppo lunghi e troppo generosi nel petto e alla vita). Ora Dorka me li stava aggiustando.
Poi Elisabeth mi portò con sé nelle camere da letto, dove scivolai nuda tra le lenzuola di cotone più meravigliosamente fini che avessi mai visto, e mi tirai la grande trapunta, ricoperta di raso, fino al collo (ora capisco la ragione di tutti quei bauli: non vi sono lenzuola tanto eleganti in tutta la Romania! Si era portata la sua biancheria).
Lei mi si mise accanto, e io caddi ben presto in un sonno meraviglioso e gradevole.
Quando mi svegliai, era nuovamente il tramonto, ed Elisabeth se ne era andata, senza dubbio in compagnia di Vlad. Avevo dormito per la maggior parte del giorno, ma non ero dispiaciuta, poiché mi sentivo estremamente riposata. Così ritornai nelle camere che dividevo con Dunya — che avevo diviso con Dunya — e presi il mio diario e il mio ritratto che portai qui, nella stanza di Elisabeth. Non dormirò più nella bara.
Ora, mentre scrivo, accoccolata nel letto lussuoso e comodo di Elisabeth, i miei pensieri ritornano al tradimento di Vlad e all’insistenza di Elisabeth sul fatto che noi non dobbiamo danneggiarlo ora, ma seguirlo in Inghilterra. In verità, il pensiero di andare con lei a Londra — a Londra, finalmente! — mi eccita oltre ogni dire, e vendicarmi di Vlad con lei al mio fianco mi sembra dolce. Ma quanto tempo devo aspettare? Quanto?
Il diario di Abraham Van Helsing
9 maggio. Gerda si agita di più, sia durante il giorno che durante la notte. Ho cambiato le mie abitudini per adattarmi a lei, che si alza appena dopo mezzogiorno invece che nell’ora che precede il tramonto. Con mia sorpresa, spesso è più ipnotizzabile durante il tardo pomeriggio ma, a volte, l’ora della sua vulnerabilità cambia. In alcuni giorni, non entra affatto in trance.
Oggi, quando mi sono alzato e ho aperto la porta della sua stanza (poverina, ora sono costretto a tenerla sotto chiave e incatenata, per evitare che Zsuzsanna, a distanza, le comandi di fare del male a se stessa o, Dio non voglia, a mamma), era sorprendentemente vivace.
Sedeva a gambe incrociate sul letto, con la lunga camicia da notte bianca raccolta con noncuranza intorno alle cosce, mentre gesticolava verso un invisibile visitatore e chiacchierava come una ragazzina a un immaginario tè. Non riuscii a decifrare cosa stesse dicendo, anche se la cadenza cantilenante e le sibilanti indicavano chiaramente che la lingua era rumeno, una lingua che lei non palla e della quale io ho una conoscenza limitata. Ma le parole non erano completamente formate, così che l’effetto era piuttosto come ascoltare un giovane pappagallo che abbia afferrato il ritmo e l’intonazione dei discorsi del suo padrone, ma che sia ancora incapace di pronunciarli con chiarezza.
Per lo spazio di un minuto, forse due, rimasi in silenzio a osservare quella strana pantomima farfugliata. Gerda non diede segno di accorgersi di me finché, all’improvviso, si voltò per gettarmi uno sguardo di traverso, sbuffando rivolta alla sua invisibile compagnia: « Lui! » . Questa volta pronunciò la paiola in chiaro e perfetto rumeno.
Ma, mentre mi sbirciava da sotto le palpebre semichiuse, i suoi occhi si aprirono lentamente, e sia il sorriso che la derisione scomparvero dal suo viso. Per il più fuggevole dei secondi, lei mi riconobbe e io riconobbi lei, e vidi il viso del mio torturato amore, di mia moglie, una prigioniera, non di lucchetti e sbarre, ma di un carceriere infinitamente più crudele: la follia.
Quella era Gerda come mi era apparsa quasi un quarto di secolo prima, con il pallido e grazioso volto di una gentildonna e gli scuri occhi sofferenti di una pazza, occhi così turbati e disperati che, quando mi guardavano da sotto una cortina scarmigliata di lunghi capelli neri (Katya li aveva lavati e spazzolati), lacrime di compassione riempivano i miei.
«Gerda», bisbigliai pieno di desiderio, e allungai la mano per toccare la sua. Ma lei si voltò, con il viso inespressivo; tutta la vivacità e l’espressione erano scomparse rapidamente, sostituite dalla vacuità che sono arrivato a odiare tanto.
Nulla di ciò che dissi riuscì a smuoverla, così mi arresi e mi dedicai a mamma per alcune ore, prima di controllare nuovamente Gerda.
Questa volta, i miei sforzi ebbero un risultato. Gerda scivolò, con grande facilità e naturalezza, in una trance ipnotica, sebbene, in certi momenti, diventasse ostinatamente muta (in particolare, alle domande «Come sta Vlad? È forte o debole?» e «Tu e lui, siete ancora intrappolati all’interno del castello?»).
Ma, mentre non voleva divulgare informazioni riguardo a Vlad, alla domanda «E tu come stai? Sei forte?», gridò con entusiasmo giovanile: «Così forte e felice come non sono mai stata in vita mia!». Al sentire ciò, il mio cuore ebbe un tuffo, ma il mio sgomento fu rapidamente vinto dalla curiosità, quando lei aggiunse: «È tutto a causa di Elisabeth…».
«Elisabeth? Chi è?».
Senza dubbio, il chi è si riferiva a quella che era venuta , ma attesi una descrizione più specifica.
Cadde in silenzio e strinse le labbra, come se fosse decisa a non rispondere; temetti che il nostro incontro fosse giunto a una fine prematura. Ma poi rispose piano: «La mia più cara amica…», e non volle dire altro sull’argomento, nemmeno se Elisabeth fosse una mortale o meno (non può esserlo, naturalmente, se è in grado di far recuperare tanto facilmente la forza a Zsuzsanna. In tutta franchezza, ciò mi terrorizza. Che tipo di immortale è, se è più potente persino dell’Impalatore? E come potrei sperare di sconfiggere una tale creatura?).
Insistetti ulteriormente.
«E ora sei in grado di lasciare il castello?».
Immediatamente — con mio sollievo — la sua espressione si rabbuiò.
«No», disse, con evidente rabbia. «Ma lo farò presto, quando andremo a Londra».
Londra! Il mio cuore cominciò a battere forte contro lo sterno come se chiedesse prepotentemente di uscire. Mio padre, Arkady, mi aveva raccontato che Vlad aveva espresso il desiderio di andare in Inghilterra circa cinquant’anni prima, a Londra, dove non è conosciuto e temuto, e c’è un numero molto più grande di potenziali vittime.
Posi alcune altre domande ma, in verità, non ricordo le risposte che diede, poiché ero troppo scosso dal sapere che Vlad e Zsuzsanna — e chiunque questa Elisabeth potesse essere — sarebbero presto fuggiti.
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