Jeanne Kalogridis - Il Signore dei Vampiri

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Il Signore dei Vampiri
Diari della famiglia Dracula
Il patto con il Vampiro
I figli del Vampiro
Dracula
In questo libro conclusivo della sensualissima trilogia
, Jeanne Kalogridis fonde brillantemente la sua appassionante storia della famiglia Tsepesh con quella narrata da Stoker, rivelando i retroscena del grande classico.

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Nel pomeriggio, dormiamo insieme fra la sontuosa biancheria da letto di Elisabeth per una manciata di ore, poi ci alziamo nuovamente al tramonto. Elisabeth, obbediente, se ne va nella stanze di Vlad “a fare una visita”, poiché, apparentemente, lui vuole essere sicuro che lei trascorra poco tempo con me (anche se, talvolta, la lascia andare alcune ore prima dell’alba). Senza dubbio teme che lei mi dica troppo della verità: non sa che è troppo tardi!

Le notti sono il momento più difficile, poiché senza Elisabeth o il nostro inglese, ben poco mi aspetta oltre la noia… e la povera Dunya non ha ancora riacquistato il suo pieno vigore. Dorme tutto il giorno ed è evidente che ha bisogno di nutrirsi. Ma, ogni volta che affronto l’argomento, Elisabeth mi dice che è meglio semplicemente lasciare che la povera ragazza si riposi finché non verrà il momento per tutti noi di lasciare il castello. Sospetto che ridare la forza a Dunya metterebbe troppo alla prova i poteri di Elisabeth, sebbene lei non lo ammetta. Le piace conservare un’aura di onnipotenza e, di fatto, è molto vicina ad essere onnipotente.

Ma se lo è, perché non possiamo partire ? È angoscioso restare qui, in questo palazzo in rovina, abbandonato, a pensare alle glorie di Londra! Ad ogni alba vado alla finestra aperta e tendo il braccio per il desiderio di sentire su di esso il caldo e piacevole bacio della luce del sole.

Quanto devo aspettare?

Sospiro, impaziente, scrivendo questo mentre Elisabeth e Dunya ancora giacciono addormentate nel grande letto. Sospiro e scrivo. Basta! Devo mantenere la mia sanità mentale; indugiare sulla mia prigionia servirà soltanto a tormentarmi. E così, adesso che l’inquietudine si è impossessata di me, scrivo…

Ieri mi sono svegliata al primo chiarore del mattino (che strano scrivere ancora questa parola, dopo così tanti anni) tra le braccia di Elisabeth, e ho fissato per un po’ fuori dalla finestra senza persiane mentre la luce grigia diventava di un pallido rosa (avevamo saltato il nostro sonnellino pomeridiano e così avevamo usato le ore più buie del mattino per riposare).

Dopo un po’ il mio amore si è mosso e mi ha guardato con un sorriso insonnolito, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano in piacevole disordine sulle spalle, sulla schiena e sui seni d’avorio. Il calore del suo corpo era piacevole, essendo il mattino fresco. Così rimasi accanto a lei e indugiammo in languida conversazione sotto le coperte. Io, come sempre, chiedevo: «Per quanto tempo? Per quanto tempo?». Ed Elisabeth, come sempre rispondeva: «Presto, presto…».

Ben presto la conversazione cadde su Vlad, e l’atteggiamento di lei divenne notevolmente strano. Si mise seduta di scatto, lasciando che le coperte cadessero (sebbene l’aria del primo mattino fosse fresca) e, con le ginocchia piegate e le lunghe braccia sottili strette intorno ad esse, domandò:

«Hai parlato in precedenza del Patto che Vlad fece con la tua famiglia e con gli abitanti del paese, ma non ho ancora udito niente del Patto che lui ha, di sicuro, con l’Oscuro Signore. Che cosa ne sai?».

Al suono del nome di quell’entità — e all’intensità, dura e brillante come un diamante, dei suoi occhi fissi intensamente nei miei — rabbrividii. Ma risposi onestamente ed esaurientemente: ossia che Vlad aveva offerto all’Oscuro Signore il figlio maggiore di ogni generazione della sua famiglia, che un sacrificio veniva richiesto a ogni generazione per procacciare una rinnovata immortalità a Vlad, e che, nel 1842, mio fratello Arkady aveva (sia come mortale che poi come Vampiro) opposto resistenza nell’espletare il malvagio servizio di Vlad. La seconda morte di Arkady — quella come Vampiro — avrebbe dovuto portare all’immediata distruzione di Vlad, ma non era stato così, perché mio fratello aveva lasciato dietro di sé un erede, che sua moglie, Mary, aveva nascosto. Fino a quando l’erede viveva e restava una possibilità che Vlad potesse consegnare l’anima di costui all’Oscuro Signore al posto di quella di Arkady, Vlad sarebbe sopravvissuto.

La debolezza di Vlad era causata da questo erede — il cui nome era stato cambiato ad opera di sua madre, da Stefan Tsepesh in Abraham Van Helsing, quando lei era fuggita con lui in Olanda — che era stato informato da suo padre, Arkady, della verità sulla sua eredità. E così Arkady aveva istruito Van Helsing nell’orribile arte di uccidere i Vampiri.

Ma Van Helsing, un semplice mortale, non era riuscito ad eguagliare la forza di Vlad, e i suoi sforzi di distruggere il Principe di Valacchia erano falliti miseramente: così il mio caro fratello era morto.

Comunque, il malvagio Van Helsing ben presto aveva scoperto un’altra terribile verità: ossia che, distruggendo altri Vampiri (quelli delle vittime di Vlad non erano stati distrutti nel modo giusto e, in seguito, erano tornati in vita), i poteri di Vlad venivano gradualmente minati. Così, nel corso degli ultimi due decenni dell’attività assassina di Van Helsing, Vlad e io siamo diventati sempre più deboli, fino a diventare i patetici resti che Elisabeth aveva salutato al suo arrivo.

Lei ascoltò affascinata e attenta e, quando ebbi finito, aggiunse:

«È evidente che Van Helsing si stava preparando a venire qui per uccidervi entrambi. Vlad è troppo sospettoso per fidarsi di qualcuno, e meno che mai di me; per lui, chiedere il mio aiuto significa che era terrorizzato dalla morte… Ma che c’è, mia cara! Perché queste improvvise e tristi lacrime?».

Ero completamente sopraffatta dal dolore ai ricordi che mi avevano assalito nel raccontare quella triste storia, e piansi ancora più forte quando lei sollevò una mano e mi asciugò teneramente le lacrime. Singhiozzando, dissi:

«Vent’anni fa ero sola, terribilmente sola, dato che Vlad mi aveva ingannato, e così avevo preso il bambino di Van Helsing, Jan, come mio immortale compagno. Era appena un bambino, appena in grado di camminare e parlare, così dolcemente innocente… e Van Helsing lo ha ucciso!».

Lei mi strinse a sé, dandomi dei colpetti sulle spalle come si fa per consolare un bambino che piange, poi si allontanò e mi tenne con gentilezza per le braccia.

«E questa bestia uccise anche il tuo povero fratello?».

Scossi la testa.

«No. Arkady morì durante uno scontro con Vlad… È qui, nel castello. Lo vuoi vedere?».

Le sue labbra, rosa e radiose come l’alba, si aprirono improvvisamente per il palese stupore.

«Il suo corpo è sopravvissuto per tutto questo tempo? Zsuzsanna, è impossibile!».

«Possibile o no, desideri vederlo?»

«Subito!», gridò, balzando con grazia dal letto e indossando la sua vestaglia con una tale foga che, prima che mi fossi alzata, mi stava già porgendo la mia.

La condussi giù per le scale e, attraverso una botola di quercia marcia e arrugginita rinforzata con il ferro, in cantina: una caverna sotterranea sotto le fondamenta di pietra del castello, un luogo che ho cominciato a considerare come il primo cerchio dell’Inferno. Anni fa, piangevo mentre trasportavo qui il corpo del mio povero fratello: un oscuro grembo di terra pieno di muffa, ornato dalle ragnatele, e coperto di polvere e di feci di topi. Oh, sì, le ossa di tanti martiri riposano nei loculi di quella grotta; le ossa di centinaia di sfortunati che servirono da cena a Vlad finché i servi non ebbero più spazio… e decisero di liberarsi delle vittime successive seppellendole nella foresta.

Il capo di quei martiri è mio fratello.

Per risparmiarmi la necessità di camminare sopra tanta morte e sofferenza, avevo sistemato il corpo di Arkady in uno dei primi loculi vuoti, quelli che non erano chiusi con pesanti sbarre di ferro arrugginito con appese catene e lucchetti che andavano in rovina. Avevo costruito per lui un catafalco di pietra, lo avevo circondato di candele, e lo avevo ricoperto con un drappo di seta nera steso sulla grezza parete di terra.

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