Jeanne Kalogridis - Il Signore dei Vampiri

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Il Signore dei Vampiri
Diari della famiglia Dracula
Il patto con il Vampiro
I figli del Vampiro
Dracula
In questo libro conclusivo della sensualissima trilogia
, Jeanne Kalogridis fonde brillantemente la sua appassionante storia della famiglia Tsepesh con quella narrata da Stoker, rivelando i retroscena del grande classico.

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Mi chinai e la baciai teneramente. Poi intrecciammo le braccia e restammo abbracciate a lungo in silenzio.

Finalmente ho ciò che Vlad mi promise tanto tempo fa ma che non mi ha dato mai: un amore eterno.

Quando infine ci alzammo, abbassai lo sguardo sull’inglese addormentato e vidi che le ferite inflitte sulle sue spalle erano completamente guarite.

Elisabeth mi condusse nel salotto, dove vi erano una mezza dozzina di grossi bauli accanto a un’altra mezza dozzina di valige, e ne aprì una. Per sé prese una stupefacente vestaglia giallo pallido bordata di un ampio merletto; per me, una vestaglia di raso blu elettrico bordata di velluto nero. Insieme ritornammo nelle mie stanze. Nell’aprire la porta mi fermai ed esclamai sgomenta:

«E Dunya? Abbiamo dimenticato la povera Dunya!».

Elisabeth mi diede dei colpetti sulla spalla, con fare rassicurante.

«Avrà molte più possibilità: finché sono qui, non può morire di fame, dimenticata, a prescindere da quello che Vlad potrebbe fare, ma per ora, mia cara, è meglio che nessun altro sappia dei nostri incontri segreti».

Sospirai con riluttante sottomissione sebbene, in effetti, considerassi estremamente egoista negare alla mia fedele serva la possibilità di nutrirsi.

Al vedere l’infelicità nei miei occhi che tenevo bassi, Elisabeth mi mise un dito sotto il mento e lo sollevò teneramente finché i nostri sguardi si incontrarono.

«Ora vai a riposarti», disse per consolarmi, «e, quando verrà la notte, ti alzerai ancora in modo che Vlad non sospetti. Dubito che ci permetterà di incontrarci, ma ti prometto che farò tutto il possibile per convincerlo che tu e Dunya dovete nutrirvi. E, se sarà d’accordo, allora tu potrai darle tutta la tua cena».

Fermandosi, mi sfiorò le labbra con il più leggero dei baci.

«In quanto a te, mia cara… domani, se ti fa piacere, guarderemo il sorgere del sole insieme».

Il pensiero mi rallegrò talmente che gridai:

«Oh, Elisabeth! Ti amerò per sempre!».

E, nell’udire ciò, lei sorrise.

9 maggio 1893. Ancora una volta, mi sono svegliata al suono della voce di Elisabeth e alla vista del suo splendido viso.

Ricordo a malapena la notte scorsa, tranne che fui troppo felice nel vedere che, come Elisabeth aveva detto, Dunya sembrava e si sentiva ancora forte. Questo mi fu di conforto, poiché mi sentivo ancora in colpa per non averla invitata a nutrirsi ieri.

Ah, ma poi ricordai il mezzogiorno di ieri — e lo ricordo ora — e ogni volta che lo faccio, arrossisco. La notte scorsa non ho visto Elisabeth; sospetto che Vlad abbia voluto tenerla con sé per mancanza di fiducia e, per amor mio, lei non ha voluto disobbedire al suo ordine di evitale la mia compagnia.

È bene anche che non l’abbia vista allora; poiché, persino in presenza di Vlad, non sarei stata in grado di controllare la mia gioia alla vista di lei.

«Mia cara», disse Elisabeth piano, e allungò la mano nella bara per accarezzarmi la fronte e una guancia, teneramente, così come una madre accarezzerebbe un figlio. «Mi addolora così tanto vederti dormire in questo… questo aggeggio! I limiti di Vlad non sono i tuoi, sebbene lui possa volere che tu lo creda. Non vuoi stare nel mio letto?»

«Farò qualunque cosa ti faccia piacere».

Le presi quindi la mano che aveva poggiato sulla mia guancia e la baciai.

«Sarò molto contenta di averti con me».

La sua frase mi fece piacere ma, in verità, non l’ascoltai che con metà della mia attenzione, poiché stavo guardando oltre lei, la finestra aperta, e vi vedevo i primi rosei raggi dell’alba che filtravano attraverso nuvole grigio-perla.

Ansiosa come un bambino, mi voltai verso di lei.

«Possiamo uscire? Adesso? Voglio vedere l’alba!», dissi.

«Sta piovigginando, temo e, da un momento all’altro, comincerà a piovere più forte».

Si toccò con una mano i riccioli d’oro attentamente acconciati come se la sola menzione del tempo potesse rovinarli.

«Non importa! Tu puoi restare qui: io voglio solo uscire e stare lì».

Alle prime tre parole, gettò indietro la testa e rise con indulgenza, poi continuò a sorridere finché non ebbi finito.

«Verrò con te, mia cara. Non avevo capito che ti sentissi così forte. Ma, se tu lo desideri, allora sarà fatto!».

Così le presi la mano e uscii dal mio macabro luogo di riposo: insieme camminammo lungo lo stesso percorso che avevamo preso il giorno precedente. Il suo vestito di seta gialla e il vestito di raso blu scuro che mi aveva dato, strusciavano piano contro il pavimento. Mentre camminavamo, lei si voltò verso di me con un’espressione di innegabile apprezzamento per il mio corpo, e disse:

«È veramente bello su di te, cara. Lo puoi tenere, e voglio che tu scelga qualcuno dei miei vestiti da indossare: Dorka potrà apportare le modifiche necessarie».

«Sei così gentile, Elisabeth!».

Mi sentivo letteralmente bruciare d’amore, come se il mio cuore fosse una grande fornace, finalmente accesa.

«E tu sei così bella, mia Zsuzsanna…».

Infine arrivammo alla grande porta di legno e ferro, e la spalancammo. Respirai immediatamente la fresca aria umida e mi meravigliai per la pioggerella che cadeva. Fuori c’era un paesaggio grigio, e un cielo coperto di nuvole.

È vero, fui delusa… per quanto bella potesse apparire la pioggerella, simile a diamanti luccicanti nella luce del sole. Anche così, ero contenta solo perché stavo all’aperto durante il giorno, e avanzai, volendo solo restare lì a sentire l’acqua fresca contro il viso, contro la pelle.

Ma, quando cercai di oltrepassare la soglia e correre lungo le scale, gridai per una delusione più profonda; infatti, per quanto provassi, non riuscivo ad andare oltre l’entrata, trattenuta da una forza invisibile.

Non potevo uscire. Sconvolta dalla disperazione, guardai Elisabeth in cerca d’aiuto.

Quello che vidi mi sorprese molto.

Anche lei stava sulla soglia e, pronunciata una veemente maledizione in ungherese, batté il piccolo piede calzato. Mentre guardavo, il bianco dei suoi occhi divenne scarlatto, rubino contro zaffiro, un contrasto stranamente accentuato dal pallore della sua pelle. È stata l’unica volta che l’ho vista con un aspetto sgradevole, e mi sorprese molto.

Indignata, si voltò per guardarmi in viso.

«Ci teme! E così è ricorso a questa pietosa magia…».

Indicò con disgusto la soglia.

Ma io nutrivo molta fede nelle sue capacità; se mi avesse ordinato di camminare sull’acqua, lo avrei fatto. Attesi che mi oltrepassasse, che uscisse audacemente all’esterno, permettendomi, poi, di fare lo stesso.

Non lo fece: rimase accanto a me sulla soglia, con l’espressione indignata. Non poteva uscire all’esterno, proprio come me. La mia delusione fu completa poiché, onestamente, l’avevo creduta onnipotente.

A causa dell’angolo della porta, non potevo vedere il sole innalzarsi nelle nuvole rosate, né la neve sulle lontane montagne; di entrambi, mi sarei dovuta accontentare guardando attraverso la finestra. Ma mi chinai più avanti che potei, distesi il braccio attraverso la porta, e voltai il palmo verso il cielo.

Lì sentii la pioggia dolce e leggera, fresca e gentile sul palmo voltato verso l’alto; le gocce caddero sul velluto nero — sul quale formarono delle perle — e sul raso blu scuro, che divennero più scuri. C’è qualcosa di consolante riguardo alla pioggia che cade durante il giorno, e qualcosa di lugubre se cade nel profondo della notte.

Infine, abbassai lentamente il braccio e mi voltai tristemente verso Elisabeth.

«Siamo in trappola», le dissi.

La sua espressione era di oltraggio mal represso, sebbene il rosso nei suoi occhi si fosse un po’ schiarito.

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