La mia risposta diceva da sei ore a sei giorni (anche se, per raffreddarsi in sei ore, la roccia circostante avrebbe dovuto condurre calore come se fosse rame puro) e Anghelov ottenne un minimo di cinque ore e un massimo di quattro giorni e mezzo. Io votai per sei e nessun altro ebbe diritto al voto.
Facemmo del gran dormire. Charlie e Diana giocavano a scacchi scarabocchiando i simboli sulla neve; io non riuscivo a tenere in mente i movimenti dei pezzi. Controllai più volte i miei calcoli, e continuavo a ottenere come risposta sei giorni. Controllai anche i calcoli di Anghelov, e sembravano giusti, ma non cedetti. Non ci avrebbe fatto male restare dentro gli scafandri per un giorno e mezzo in più. Discutemmo giovialmente in concisi segni stenografici.
Eravamo diciannove il giorno che avevamo buttato fuori le bombe. Eravamo ancora diciannove sei giorni dopo, quando mi fermai un attimo, con la mano sull’interruttore del campo. Che cosa ci aspettava là fuori? Sicuramente avevamo ucciso tutti i taurani nel raggio di parecchi chilometri dall’esplosione. Ma poteva esserci stata una forza di riserva molto più lontana, e magari adesso era in paziente attesa sull’orlo del cratere. Però, adesso potevi spingere un bastone attraverso il campo e ritirarlo ancora intero.
Dispersi i miei a intervalli regolari intorno all’area, perché non ci liquidassero tutti con un colpo solo. Poi, pronto a riattivarlo immediatamente se qualcosa fosse andato storto, spensi il campo.
La mia radio era ancora sintonizzata sulla frequenza generale: dopo oltre una settimana di silenzio, le mie orecchie furono aggredite da un parlottio chiassoso e felice.
Eravamo al centro di un cratere largo e profondo circa un chilometro. I suoi fianchi erano una lucente crosta nera, screziata di crepe rosse, calda ma non più pericolosa. L’emisfero di terra su cui eravamo noi era sprofondato d’una quarantina di metri buoni nel fondo del cratere, mentre era ancora fuso, perciò adesso ci trovavamo su una specie di piedestallo.
Neppure un taurano in vista.
Ci precipitammo nel caccia, lo chiudemmo, lo riempimmo d’aria fresca e aprimmo gli scafandri. Non mi avvalsi del mio grado per avere il diritto di precedenza nell’uso dell’unica doccia; mi distesi sulla cuccetta antiaccelerazione e aspirai profondamente boccate d’aria che non odoravano di Mandella riciclato.
Il caccia era stato progettato per un massimo di dodici persone, perciò stavamo fuori, a turni di sette, per non esaurire gli impianti ambiente. Io mandai ripetutamente un messaggio all’altro caccia, che era lontano ancora sei settimane, avvertendo che stavamo bene e aspettavamo di venire raccolti. Ero sicuro che avesse almeno sette posti liberi, poiché l’equipaggio normale per una missione di combattimento era formato da tre sole persone.
Era piacevole poter camminare e parlare di nuovo. Sospesi ufficialmente tutte le attività militari per la durata della sosta forzata sul pianeta. C’erano anche diversi superstiti della banda semiammutinata della Brill, ma non mostravano la minima ostilità nei miei confronti.
Giocavamo spesso a una specie di gioco della nostalgia, confrontando le varie epoche che avevamo conosciuto sulla Terra, e chiedendoci come l’avremmo trovata nel futuro in cui saremmo ritornati. Nessuno parlò del fatto che nella migliore delle ipotesi avremmo avuto qualche mese di licenza e poi saremmo stati assegnati a un’altra Forza d’Attacco; un altro giro della ruota.
Ruote. Un giorno Charlie mi chiese di che paese era originario il mio cognome: gli sembrava molto strano. Gli dissi che aveva avuto origine dalla mancanza di un dizionario, e che se fosse stato scritto giusto sarebbe sembrato più strano ancora.
Impiegai una mezz’ora buona a spiegare tutti i particolari. In sostanza, comunque, si riduceva a questo. I miei genitori erano hippies (una specie di subcultura dell’America del tardo Ventesimo secolo, che rifiutava il materialismo e abbracciava un’ampia gamma di strane idee) e vivevano con un gruppo di altri hippies in una piccola comunità agricola. Quando mia madre si era accorta di aspettare un figlio, non aveva voluto sposarsi, perché lo giudicavano convenzionale: sposarsi comportava che la donna assumesse il cognome dell’uomo, per indicare che era sua proprietà. Ma erano inebriati e sentimentali, e avevano deciso di cambiare entrambi il cognome, scegliendone uno identico. Andarono nella città più vicina, e lungo il percorso discussero per decidere quale cognome poteva simboleggiare meglio il legame d’amore esistente tra loro (per poco non mi ritrovai con un cognome assai diverso, e poco diplomatico), e alla fine scelsero Mandala.
Un mandala è un motivo a forma di ruota che gli hippies avevano preso a prestito da una religione straniera, e simboleggiava il cosmo, la mente cosmica, Dio, o non so che altro. Né mia madre né mio padre sapevano come si scrivesse esattamente quella parola, e il magistrato, in città, lo scrisse nel modo che gli sembrava più giusto.
I miei genitori mi avevano poi chiamato William in onore di uno zio ricco, che sfortunatamente era morto povero in canna.
Le sei settimane trascorsero abbastanza piacevolmente: conversavamo, leggevamo, riposavamo. L’altro caccia atterrò accanto al nostro; e aveva nove posti liberi. Riorganizzammo gli equipaggi in modo che ogni caccia avesse a bordo qualcuno capace di rimediare, se la sequenza programmata dei balzi non avesse funzionato a dovere. Io mi assegnai all’altro caccia, nella speranza che avesse qualche libro nuovo. Non ne aveva.
Ci chiudemmo nelle vasche e decollammo simultaneamente.
Finimmo per trascorrere molto tempo nelle vasche, se non altro per non dover vedere sempre le stesse facce tutto il giorno, nell’astronave affollata. Quei periodi aggiunti di accelerazione ci riportarono a Stargate in dieci mesi soggettivi. Naturalmente erano 340 anni (meno sette mesi) secondo l’ipotetico osservatore obiettivo.
C’erano centinaia di astronavi in orbita attorno a Stargate. Brutto segno: con tutta quella gente in coda probabilmente non avremmo avuto nessuna licenza.
Io pensavo che molto probabilmente avrei avuto una corte marziale, comunque, anziché una licenza. Avevo perso l’88 per cento della mia compagnia; e molti erano morti perché non avevano avuto abbastanza fiducia in me da obbedire a un mio ordine, quando era venuto il terremoto. E a Sade-138 eravamo ancora al punto di partenza: adesso là non c’erano taurani, ma neanche la nostra base.
Ricevemmo le istruzioni per l’atterraggio e scendemmo direttamente, senza navette. Allo spazioporto, ci aspettava un’altra sorpresa. Dozzine d’incrociatori erano posati sul campo (un tempo non lo facevano mai, per timore che Stargate venisse colpito), e c’erano anche due incrociatori taurani catturati. Noi non eravamo mai riusciti a prenderne uno intatto.
Sette secoli potevano averci procurato un vantaggio decisivo, naturalmente. Magari stavamo addirittura vincendo.
Entrammo da un portello con la scritta "reduci". Quando l’aria prese a circolare e noi aprimmo gli scafandri, entrò una bellissima, giovane donna con un carrello pieno di tuniche e ci disse, in un inglese dall’accento perfetto, di vestirci e di recarci nella sala delle conferenze, in fondo al corridoio a sinistra.
La tunica dava una strana impressione al tatto: era leggera ma calda. Era la prima cosa che indossavo, a parte lo scafandro da combattimento e la mia pelle, da quasi un anno.
La sala delle conferenze era cento volte troppo grande per noi, che eravamo ventidue. C’era la stessa donna di prima, e ci invitò a farci avanti. Era una cosa sconvolgente: avrei giurato che si era avviata nel corridoio nella direzione opposta, anzi lo sapevo. Ero rimasto affascinato alla vista del suo didietro.
Diavolo, magari adesso avevano i trasmettitori di materia. O il teletrasporto. E lei aveva voluto risparmiarsi la fatica di quei pochi passi.
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