Spiegai a grandi linee la situazione, e dissi loro di avvertire le truppe che tutti gli effettivi della compagnia erano liberi di trasferirsi nel campo di stasi. Io sarei rimasto e sarei andato a recuperarli se tutto fosse andato bene. Non per magnanimità, naturalmente: preferivo il rischio di venir disintegrato in un nanosecondo a una quasi inevitabile morte lenta sotto la cupola grìgia.
Poi formai la combinazione di Charlie. — Puoi andare anche tu. Provvedo io a tutto, qui.
— No, grazie — disse lui, lentamente. — Preferirei… Ehi, guarda questo.
L’incrociatore aveva lanciato un altro punto rosso, un paio di minuti più indietro degli altri. La proiezione dello schermo l’identificò: era un altro missile automatico. — È strano.
— Bastardi superstiziosi — disse Charlie, senza slancio.
Solo undici persone decisero di raggiungere le cinquanta che avevano avuto l’ordine di andare nella cupola. La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi, e invece mi sorprese.
Mentre i missili si avvicinavano, Charlie e io osservavamo i monitor, evitando di guardare lo schermo olografico, tacitamente concordi nel ritenere che era meglio non sapere quando erano a un minuto di distanza, a trenta secondi… E poi, come le altre volte, finì prima che ci rendessimo conto che era cominciato. Gli schermi sfolgorarono bianchissimi, ci fu un brontolio di energia statica, e noi eravamo ancora vivi.
Ma questa volta c’erano quindici buche nuove sull’orizzonte, o ancora più vicino, e la temperatura saliva così rapidamente che l’ultima cifra dell’indicatore era una chiazza amorfa, in movimento. Il numero salì oltre gli 800 e poi cominciò a ridiscendere.
Non avevamo mai visto i missili, durante l’infinitesimale frazione di secondo che i laser impiegavano a puntare e a sparare. Ma poi il diciassettesimo lampeggiò sopra l’orizzonte, zigzagando pazzamente, e si fermò proprio sulla nostra verticale. Per un istante sembrò restare immobile, e poi cominciò a cadere. Metà dei laser l’avevano captato, e sparavano continuamente, ma nessuno poteva mirare: erano tutti bloccati nella precedente posizione di tiro.
Il missile scintillava mentre cadeva, e la lucentezza di specchio del guscio rifletteva il bagliore incandescente dei crateri e il guizzare spettrale del costante, impotente fuoco dei laser. Sentii Charlie trarre un profondo respiro, e il missile scese così vicino che potevi vedere i filiformi numerali taurani incisi sull’involucro e un oblò trasparente, vicino alla punta… poi il motore divampò, e sfrecciò via, all’improvviso.
— Cosa diavolo? — fece Charlie, sottovoce. L’oblò. — Forse era un ricognitore.
— Credo di sì. Quindi non possiamo toccarli, e loro lo sanno.
— A meno che i laser si riprendano. — Non pareva probabile. — È meglio che mandiamo tutti quanti sotto la cupola. E che ci andiamo anche noi.
Egli pronunciò una parola che era un po’ cambiata nel corso dei secoli, ma che aveva ancora un significato inequivocabile. — Non c’è fretta. Vediamo cosa fanno.
Attendemmo per parecchie ore. All’esterno, la temperatura si stabilizzò a 690 gradi — appena inferiore al punto di fusione dello zinco, ricordai assurdamente — e provai i comandi manuali dei laser, ma erano ancora bloccati.
— Ecco che arrivano — disse Charlie. — Altri otto.
Mi avviai verso lo schermo. — Credo che…
— Aspetta! Non sono missili. — La proiezione li identificò tutti e otto con la legenda Trasporto truppe.
— Penso che vogliano prendere la base — disse Charlie. — Intatta.
E magari collaudare nuove armi e nuove tecniche. — Non è un gran rischio per loro. Possono sempre ritirarsi e gettarci una bomba nova sulle ginocchia.
Chiamai la Brill e ordinai di andare a prendere tutti quelli che si trovavano nel campo di stasi, di schierarli con il resto del suo plotone in una linea difensiva intorno ai quadranti nord-est e nord-ovest. Io avrei schierato gli altri sull’altro semicerchio.
— Chissà — fece Charlie. — Forse non dovremmo portare tutti all’aperto. Almeno fino a quando non sappiamo quanti sono i taurani.
Aveva ragione lui. Tenere una riserva, indurre il nemico a sottovalutare le nostre forze. — È un’idea… potrebbero essere solo sessantaquattro, negli otto trasporti. — O centoventotto, o duecentocinquantasei. Sarebbe stato meglio se i nostri satelliti spia avessero posseduto una maggiore capacità di discriminazione. Ma non si può mettere più che tanto, dentro a una macchina grande come un chicco d’uva.
Decisi che i settanta della Brill formassero la nostra prima linea difensiva e ordinai che si schierassero in cerchio nelle trincee preparate all’esterno del perimetro della base. Tutti gli altri sarebbero rimasti sottoterra fino a quando non ci fosse stato bisogno di loro.
Se fosse risultato che i taurani, per superiorità numerica o grazie a una nuova tecnologia, erano in grado di mettere in campo una forza inarrestabile, avrei ordinato a tutti di entrare nel campo di stasi. C’era una galleria che portava dagli alloggiamenti alla cupola, e quelli che si trovavano nella base sotterranea potevano arrivarci sani e salvi. Quelli in trincea si sarebbero dovuti ritirare sotto il fuoco nemico: se qualcuno di loro fosse stato ancora vivo nel momento in cui avrei dato l’ordine.
Chiamai la Hilleboe e dissi a lei e a Charlie di badare ai laser. Se si fossero sbloccati, avrei richiamato la Brill e i suoi; avrei riattivato il sistema di puntamento automatico, e sarei rimasto a godermi lo spettacolo. Ma anche bloccati, i laser potevano essere utili. Charlie segnò i monitor per indicare dove sarebbero andati a puntare i raggi: lui e la Hilleboe potevano farli sparare manualmente, ogni volta che qualcosa si muoveva entro la linea di tiro di un’arma.
Avevamo ancora una ventina di minuti. La Brill stava facendo il giro del perimetro con i suoi, e ordinava di entrare nelle trincee, una squadra alla volta, in modo da creare campi di fuoco incrociati. La chiamai e le dissi di montare le armi pesanti in modo da usarle per incanalare l’avanzata dei nemici verso la linea di tiro dei laser.
Non c’era altro da fare che attendere. Chiesi a Charlie di misurare l’avanzata dei nemici e di tentare di darci un count-down preciso, poi sedetti alla scrivania e presi un blocco, per tracciare uno schema dello schieramento della Brill e vedere se potevo apportare qualche miglioramento.
Il gatto mi saltò sulle ginocchia, miagolando lamentosamente. Non poteva distinguere una persona dall’altra, adesso che eravamo chiusi negli scafandri. Ma nessun altro sedeva mai a quella scrivania. Cercai di accarezzarlo, e lui schizzò via.
La prima riga che tracciai sfondò quattro fogli di carta. Era passato parecchio tempo da quando avevo fatto per l’ultima volta un lavoro delicato stando dentro a uno scafandro. Ricordai che, durante l’addestramento, ci facevano esercitare a controllare i circuiti amplificatori della forza passandoci delle uova dall’uno all’altro. Se ne spaccavano parecchie. Mi chiesi se esistessero ancora le uova, sulla Terra.
Completai lo schema: non sapevo come potevo migliorarlo. In tutte le teorie che mi avevano stipato nel cervello c’erano molti suggerimenti tattici sulle manovre avvolgenti e sugli accerchiamenti, ma dal punto di vista sbagliato. Se a essere circondato eri tu, non avevi molta scelta. Stare lì a combattere. Rispondere prontamente alle concentrazioni di forze del nemico, ma mantenere la flessibilità in modo che il nemico non possa impiegare una diversione per allontanare una parte delle tue forze da qualche sezione prevedibile del tuo perimetro. Utilizzare al massimo l’appoggio aereo e spaziale. Ottimo consiglio. Tieni giù la testa e il mento alto e prega che arrivi la cavalleria. Tieni la tua posizione e non pensare a Dien-bien-phu, ad Alamo e alla battaglia di Hastings.
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