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Joe Haldeman: Guerra eterna

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Joe Haldeman Guerra eterna

Guerra eterna: краткое содержание, описание и аннотация

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La guerra, ci insegna l’autore, non è mai una cosa piacevole. E in una guerra che dura 1200 anni, le probabilità di sopravvivenza sono prossime a zero. Iniziata nel 1997, la guerra contro la razza extraterrestre dei Taurani si trascina avanti pesantemente, un secolo dopo l’altro. I soldati che la combattono viaggiano tra le stelle a velocità prossime a quelle della luce, e invecchiano soltanto di pochi mesi ad ogni viaggio, mentre i secoli si susseguono rapidamente sulla Terra: una Terra che ad ogni licenza diventa sempre più irriconoscibile. Il soldato Mandella inizia come fuciliere: è di leva, non ama né la vita militare né il modo con cui gli alti comandi trattano lui, i suoi compagni e in sostanza anche il nemico. Ma, nonostante queste sue avversioni, il semplice espediente di non farsi uccidere in qualche scaramuccia o in qualche esercitazione (assai più pericolose che non i veri combattimenti) lo porta a diventare maggiore, a capo di qualche… secolo. E parallelamente all’inglorioso svolgersi della Guerra Eterna, vediamo i cambiamenti della società terrestre in 1200 anni: i mutamenti di abitudini e di prospettive culturali, estrapolati da Haldeman in modo quanto mai plausibile. Un grande romanzo, che ha giustamente meritato i massimi premi della fantascienza.

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Ne uccidemmo più della metà con frecce e lance, prima ancora che arrivassero alla distanza adatta per il corpo a corpo. Sguainai la spada e aspettai. La superiorità numerica era ancora loro: più di tre a uno.

Quando arrivarono a meno di dieci metri, fu il momento di gloria per i nostri armati di chakra. Sebbene quel disco roteante fosse ben visibile e impiegasse più di mezzo secondo per arrivare a segno, quasi tutti i taurani reagirono con la stessa inefficienza, alzando lo scudo per deviarlo. Le pesanti lame temperate e affilate come rasoi tagliarono gli scudi leggeri, come seghe elettriche che affondassero nel cartone.

Il primo scontro corpo a corpo ebbe luogo con i "bastoni", che erano barre metalliche lunghe due metri, terminanti alle estremità in lame a doppio taglio. I taurani avevano un metodo abbastanza agghiacciante, o eroico, a seconda dei punti di vista, per affrontarli. Afferravano semplicemente la lama e morivano. Mentre l’umano cercava di districare l’arma dalla stretta del nemico morto, uno spadaccino taurano, con una scimitarra lunga più di un metro, si faceva avanti e lo uccideva.

Oltre alle spade, avevano una specie di bolo, una lunga corda elastica che terminava con dieci centimetri di qualcosa di simile al filo spinato, e con un piccolo peso per dargli slancio. Era un’arma pericolosa per tutti, amici e nemici: se mancava il bersaglio tornava indietro di scatto, imprevedibilmente, e dove colpiva colpiva. Ma i taurani centravano il bersaglio molto spesso, nascondendosi dietro gli scudi e facendo avvinghiare il filo spinato intorno alle caviglie dei nostri.

Mi misi schiena contro schiena con il soldato Erikson, e lavorando di spada riuscimmo a restare in vita per i minuti che seguirono. Quando i taurani furono ridotti a un paio di dozzine di superstiti, girarono sui tacchi e si avviarono per uscire. Gli scagliammo dietro qualche dardo, colpendone tre, ma non ce la sentivamo di inseguirli. C’era caso che tornassero indietro a ricominciare il massacro.

Eravamo rimasti in piedi in ventotto. Il terreno era coperto da un numero quasi decuplo di taurani morti, ma la cosa non ci diede molta soddisfazione.

Avrebbero potuto ricominciare, con altri trecento. E questa volta l’avrebbero spuntata.

Passammo da un cadavere all’altro, svellendo frecce e lance, e poi tornammo a piazzarci intorno al caccia. Nessuno si prese la briga di recuperare i bastoni. Contai i miei: Charlie e Diana erano ancora vivi (la Hilleboe era stata una delle vittime della tattica taurana del bastone), e così pure due ufficiali specialisti, Wilber e Szydlowska. Rudkoski era ancora vivo, ma Orban s’era buscato un colpo di dardo.

Dopo un giorno d’attesa, cominciammo a pensare che il nemico avesse optato per una guerra di logoramento, anziché ripetere l’attacco al suolo. I dardi continuavano a piovere, non più a sciami, ma a due e a tre e a dieci per volta, e sempre da angolazioni diverse. Noi non potevamo stare sempre all’erta: ogni tre o quattro ore riuscivano a colpire qualcuno.

Dormivamo a turno, due per volta, sopra il generatore del campo di stasi. Poiché stava direttamente sotto il caccia, era il posto più sicuro della cupola.

Di tanto in tanto, un taurano faceva capolino sull’orlo del campo, evidentemente per vedere in quanti eravamo rimasti. Qualche volta scagliavamo una freccia contro di lui, tanto per tenerci in esercizio.

Dopo un paio di giorni, i dardi non piovvero più. Pensai che forse li avevano finiti. O forse avevano deciso di smetterla quando noi ci fossimo ridotti a venti superstiti.

C’era una terza, più probabile, possibilità. Portai uno dei bastoni all’orlo del campo e lo spinsi oltre, un centimetro o giù di lì. Quando lo ritirai, la punta era fusa. La mostrai a Charlie e lui si dondolò avanti e indietro (era l’unico modo per annuire, con uno scafandro addosso): la cosa era già accaduta, una delle prime volte, quando il campo di stasi non aveva funzionato. I taurani l’avevano semplicemente saturato di fuoco laser e adesso aspettavano che ci stufassimo dell’inazione e spegnessimo il generatore. Probabilmente se ne stavano seduti a bordo dei loro trasporti, a giocare all’equivalente taurano del ramino.

Mi sforzai di pensare. Era difficile concentrare la mente su qualcosa, in quell’ambiente ostile, mentre dovevi voltarti indietro ogni due secondi. Era qualcosa che aveva detto Charlie. Proprio ieri. Non riuscivo a rammentare. Allora non avrebbe funzionato: questo era tutto ciò che ricordavo. Poi finalmente ci arrivai.

Chiamai tutti intorno a me e scrissi sulla neve:

PRENDETE BOMBE NOVA DALLA NAVE
PORTATELE AL BORDO DEL CAMPO
SPOSTATE IL CAMPO

Szydlowska sapeva dove trovare gli attrezzi adatti, sul caccia. Per fortuna, avevamo lasciato aperti tutti i portelli prima di attivare il campo di stasi: le serrature erano elettroniche e si sarebbero bloccate. Rastrellammo un assortimento di chiavi inglesi dalla sala macchine e salimmo nella cabina. Lui sapeva come fare a rimuovere la piastra che dava accesso al vano bombe. Lo seguii, strisciando nel tubo largo un metro.

Normalmente, immagino, sarebbe stato buio pesto. Ma il campo di stasi illuminava il vano bombe con lo stesso fioco chiarore senza ombre che c’era all’esterno. Il vano bombe era troppo piccolo per ospitarci entrambi, così io restai a guardare, affacciato all’estremità del tubo.

I portelli avevano anche un comando manuale, e quindi fu facile. Szydlowska girò una manovella e tutto fu a posto. Liberare le due bombe nova dalle imbragature fu un’altra faccenda. Alla fine, lui ritornò in sala macchine a prendere un piede di porco. Ne staccò una e io presi l’altra, e la facemmo rotolare fuori del vano bombe.

Il sergente Anghelov ci stava già lavorando sopra, quando noi due scendemmo. Per armare la bomba bastava svitare la spoletta sulla punta, e infilare qualcosa nell’intercapedine, in modo da far saltare i meccanismi di blocco e le sicure.

Le portammo in fretta e furia sull’orlo, sei persone per bomba, e le posammo una accanto all’altra. Poi facemmo un segnale con le braccia ai quattro in posizione accanto alle maniglie del generatore del campo. Quelli lo sollevarono e percorsero dieci passi nella direzione opposta. Le bombe sparirono, quando l’orlo del campo gli scivolò sopra.

Non ci fu dubbio che le bombe esplosero. Per un paio di secondi, fuori fece caldo quanto all’interno di una stella, e se ne accorse persino il campo di stasi: per un momento un terzo della cupola si illuminò di un rosa cupo, e poi ritornò grigio. Ci fu un lieve senso di accelerazione, come si può provare in un ascensore lento. Questo significava che stavamo scivolando verso il fondo del cratere. Avremmo trovato un fondo solido? Oppure saremmo affondati attraverso la roccia fusa, per restare intrappolati come mosche nell’ambra? Era inutile pensarci. Forse, se fosse accaduto, avremmo potuto aprirci una via d’uscita con il laser da un gigawatt del caccia.

Dodici di noi, almeno.

PER QUANTO TEMPO? scarabocchiò Charlie sulla neve, ai miei piedi.

Era una domanda maledettamente giusta. Io sapevo solo la quantità di energia che liberavano due bombe nova. Non sapevo che razza di sfera infuocata potevano fare, ed era essa a determinare la temperatura al momento della detonazione e la grandezza del cratere. Non conoscevo le capacità termiche della roccia circostante, né il suo punto di ebollizione. Scrissi: UNA SETTIMANA, CHISSÀ? DEVO PENSARCI.

Il calcolatore del caccia avrebbe potuto dirmelo in un millesimo di secondo, ma non parlava. Cominciai a scrivere equazioni sulla neve, cercando di ottenere un massimo e un minimo del tempo che sarebbe occorso perché la temperatura esterna scendesse a 500 gradi. Anghelov, le cui nozioni di fisica erano più aggiornate delle mie, fece i suoi calcoli dall’altra parte del caccia.

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