I Plasmatori avevano piazzato dischi di ascolto dappertutto nell’asteroide. I crateri da impatto a forma di scodella erano fatti su misura per la loro rete camuffata. Tutte le antenne facevano capo a un processore centrale, i cui delicati semiconduttori erano ospitati in una robusta consolle di acrilico. Fessure aperte nella consolle contenevano cassette di nastro da registrazione confezionate in casa, che scorrevano in continuazione davanti a una dozzina di testine diverse. Un’altra apertura sul banco di acrilico ospitava un display a cristalli liquidi per la registrazione video, e c’era anche una tastiera con le lettere scritte a mano.
I due genetici passavano al vaglio le bande d’onda, esaminando lo spettro generale delle trasmissioni del cartello. La maggior parte delle bande possedevano sistemi automatici di cancellazione della statica, impulsi anonimi che inquinavano gli impulsi significativi. — Qui c’è qualcosa — annunciò Paolo. — Triangolalo, Fazil.
— È vicino — disse Fazil. — Oh… soltanto il pazzo.
— Cosa? — intervenne Lindsay. Un enorme scarafaggio verde chiazzato d’un vivido violetto passò davanti a loro con uno sbattere d’ali.
— Quello che indossa sempre la tuta spaziale. — I due si guardarono. Lindsay lesse il loro sguardo. Stavano pensando alla puzza di quell’uomo.
— Sta parlando? — chiese Lindsay. — Inserisciti, per favore.
— Quello parla sempre — replicò Paolo. — Canta per la maggior parte del tempo. Delira dentro un canale aperto.
— Ha addosso la nuova tuta spaziale — si affrettò a informarli Lindsay. — Fatemelo ascoltare.
Udì il Dep Tre: — … granulato come il viso di mia madre. E mi spiace di non aver salutato il mio amico Marte. Mi spiace anche per il Carnevale. Sono a chilometri di distanza, e quel sibilo… Pensavo che fosse un nuovo amico che cercava di parlare. Ma non lo è. È un piccolo foro sulla mia schiena, dove ho incollato le bombole. Le bombole funzionano bene, il buco funziona meglio. Sono io e le mie due pelli, tra poco entrambe belle gelide…
— Cerca di chiamarlo! — esclamò Lindsay.
— Ti ho detto che tiene il canale aperto. Quell’unità è vecchia di duecento anni e forse più. Non può sentirci mentre sta parlando.
— Non ho intenzione di riarrotolarmi, me ne rimarrò qui fuori. — La sua voce era più debole. — Non c’è aria per parlare. Non c’è aria per ascoltare. Così, cercherò di uscir fuori. C’è soltanto una chiusura-lampo. Con un po’ di fortuna riuscirò a sgusciar fuori completamente. — Vi fu un leggero crepitio di statica. — Addio, Sole. Addio, Stelle. Grazie per…
Le parole andarono perdute nel sibilo della decompressione. Poi il crepitio della statica riprese. Continuò molto a lungo.
Lindsay rifletté. Poi parlò con calma. — Ero io il vostro alibi, Paolo?
— Cosa? — Paolo era scosso.
— Avete sabotato la sua tuta. E poi avete fatto attenzione a non trovarvi qui quando avreste potuto aiutarlo.
Paolo era pallido. — Non ci siamo mai avvicinati alla sua tuta, lo giuro!
— Allora perché non eravate qui al vostro posto?
— È stata Kleo a predispormi! — urlò Paolo. — Ian arriva, lo dicono i dadi, dice! Io dovrei essere pulito!
— Chiudi il becco, Paolo. — Fazil lo afferrò per un braccio.
Paolo cercò d’imporgli silenzio con un’occhiataccia, poi si rivolse a Lindsay: — Sono stati Kleo e Ian. Odiano la mia fortuna… — Fazil gli diede uno scrollone.
Paolo gli tirò una sberla di traverso alla faccia.
Fazil cacciò un urlo e gettò le braccia intorno a Paolo, tenendolo stretto a sé. Paolo parve afflitto. — Ero scombussolato — disse. — Ho mentito su Kleo: lei ci ama tutti. È stato un incidente. Un incidente.
Lindsay se ne andò. Si precipitò lungo le gallerie, passando davanti ad altro “ware” organico e ad una serra dove un ventilatore soffiava via con forza l’odore di fieno appena tagliato.
Entrò in una caverna dove dei genera-luce risplendevano di un rosso cupo attraverso una membrana permeabile ai gas. La stanza di Nora si trovava su una laterale della caverna, bloccata dalla massa ansimante del suo ventilatore privato. Lindsay l’oltrepassò sul lato dell’esalatore, schiacciando il corpo contro la parete, e accese le luci.
Degli arabeschi viola ricoprivano le pareti della stanza. Nora stava dormendo.
Le sue braccia e le sue gambe erano strette dai cavi. Dei sostegni le circondavano i polsi e i gomiti, le caviglie e i ginocchi. Dei mioelettrodi costellavano i gruppi di muscoli sotto la sua pelle nuda. Le braccia e le gambe si muovevano calme, all’unisono, su un lato e sull’altro, avanti e indietro. Un lungo carapace le creava una protuberanza sulla schiena, sopra i gangli nervosi che si diramavano dalla sua spina dorsale.
Era un congegno diplomatico da addestramento, un granchio spinale. I ricordi balenarono dietro gli occhi di Lindsay: si sentì cogliere da un furore folle. Balzò via dalla parete e schizzò verso di lei come un razzo. Gli occhi velati di Nora si aprirono di scatto mentre lui gridava la sua furia.
L’afferrò per il collo e la tirò in avanti con uno strappo, affondando le unghie dentro l’orlo gommoso là dove il granchio spinale incontrava la pelle. Lo strappò via con selvaggia violenza. Una parte si staccò. Sotto, la pelle luccicava rossa, resa liscia dal sudore. Lindsay afferrò il cavo collegato con il braccio sinistro e lo staccò con un colpo secco. Tirò con più forza. Nora ansimò mentre una cinghia affondava sotto le sue costole.
Il granchio si stava sbucciando. Il suo ventre era orrendo, una massa frastagliata di umidi tubi translucidi, traforati da tanti piccolissimi pori dai quali uscivano innumerevoli fili sottili come capelli. Lindsay tirò un’altra volta. L’innesto di un cavo si tese e si spezzò, facendo schizzar fuori dei cavetti più piccoli, colorati.
Lindsay appoggiò i piedi contro la schiena di Nora, e tirò ancora; la donna soffocò e artigliò la fibbia della cinghia. La cintura venne via di scatto con la forza d’una frustata, e Lindsay ebbe in pugno il congegno. Con il suo programma sconvolto, questo si dibatté e si arricciò come una cosa viva. Lindsay lo fece roteare tenendolo per la cinghia e lo sbatté contro la parete con tutte le sue forze. I segmenti sovrapposti sul dorso del congegno si spaccarono, con un crepitio di plastica. Lindsay tornò a scagliarlo contro la parete di pietra con la forza di una scudisciata. Liquidi lubrificanti brunastri colarono fuori, poi si dispersero in tante gocce in caduta libera quando lo fracassò una volta ancora. Per concludere l’opera, lo schiacciò sotto i piedi, tirando la cinghia fino a quando non cedette. Le sue budella comparvero sotto le piastre: biochip a forma di losanga annidate dentro fibre ottiche multicolori.
Lindsay lo sbatté una volta ancora contro la roccia, con maggior lentezza e determinazione. Lo schiacciò nuovamente con movimenti deliberati, triturandolo. Adesso il furore lo stava lasciando. Provava una sensazione di freddo. Il braccio destro gli tremava incontrollabilmente.
Nora era addossata alla parete, si teneva aggrappata ad una rastrelliera per indumenti. L’improvviso distacco dalla programmazione nervosa aveva indotto in lei un tremito continuo dovuto alla paralisi.
— Dov’è l’altro? — volle sapere Lindsay. — Quello per la tua faccia?
I suoi denti battevano. — Non l’ho portato con me — rispose la donna.
Lindsay sbatté via il granchio con un calcio. — Da quanto tempo, Nora? Da quanto tempo sei sotto a quell’affare?
— Lo indosso ogni notte.
— Ogni notte? Mio Dio!
— Devo essere la migliore — disse Nora, tremando. Cercò a tastoni un poncho dalla rastrelliera e infilò la testa attraverso il foro.
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