Bruce Sterling - La matrice spezzata

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È considerata l'opera che, insieme a Neuromante (1984) di William Gibson, ha dato inizio alla stagione della narrativa Cyberpunk.
Definito da Sterling stesso come il favorito tra i suoi libri, “La matrice spezzata” racconta di un mondo in cui l'umanità è divisa tra i rivoluzionari Shaper, favorevoli a un'umanità biologica, in lotta contro gli aristocratici Mechanist (che vorrebbero imporre il dominio della macchina) per il definitivo controllo del genere umano. Il volume comprende un romanzo e cinque racconti pubblicati tra il 1982 e il 1984, ambientati nello stesso sfondo fanta-storico e che costituiscono una sorta di minisaga, quasi una summa dell'intenso universo sterlinghiano.
Nominato per il premio Nebula per miglior romanzo in 1985, premio BSFA in 1986.

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Tirò a sé un inalatore di bronzo indurito, e inspirò da esso ostentatamente.

— Ti sei cucita quella tuta spaziale da sola? — chiese il Presidente della Camera.

— Sì, Presidente. Le cuciture sono di filo metallico e resine epossidiche estratte dalle nostre banche dati organiche.

— Intelligente.

— Mi piacciono i vostri scarafaggi — dichiarò il Secondo Deputato. — Rosa, oro e verde. Non sembrano affatto scarafaggi. Mi piacerebbe averne qualcuno.

— Sono sicura che potremo metterci d’accordo — disse Nora.

— Vi posso dare in cambio un po’ di rilassanti. Ne ho parecchi.

— Grazie — annuì Nora. Se la stava cavando benissimo. Lindsay, in qualche modo, si sentiva orgoglioso di lei.

Nora aprì la chiusura lampo della propria tuta spaziale e ne uscì fuori. Sotto, indossava un poncho triangolare che le passava sopra le spalle, geometricamente ricamato in bianco e azzurro-ghiaccio. Le estremità affusolate del poncho erano tenute assieme da lacci che passavano sopra i fianchi, lasciando nude le gambe salvo per i sandali di velcro con spighette.

Con molto tatto i pirati avevano rinunciato alle proprie tute con sopra disegnato lo scheletro rosso e argento. Indossavano invece dei copritutto marrone grigiastro dello Zaibatsu. Parevano tanti selvaggi.

— Mi piacerebbe una di queste — disse il Dep Tre. Avvicinò il braccio a fisarmonica della sua antica tuta spaziale a quello di plastica sottile della tuta di Nora. — Come fai a respirare in quella ventosa?

— Non è per lo spazio profondo. La riempiamo di ossigeno e respiriamo fino a quando possiamo. Dieci minuti.

— Potrei collegarci una bombola. Sarebbe più adatta allo spazio, cittadina. Al Sole piacerebbe.

— Potremmo insegnarti a cucirtene una. È un’arte che vale la pena di conoscere. — Sorrise al Dep Tre, e Lindsay rabbrividì dentro di sé. Sapeva come il fetore del sudore che usciva dalla tuta del Dep dovesse rivoltarle lo stomaco.

Si mosse fra loro due, sospingendo senza troppa cura il Dep Tre. E, per la prima volta, toccò Nora Mavrides. Appoggiò delicatamente la mano sulla morbida spalla azzurra e bianca del suo poncho. Ma il muscolo sotto la sua mano era rigido come fil di ferro.

La ragazza ebbe un nuovo, fugace sorriso. — Sono sicura che gli altri troveranno affascinante questa nave. Siamo arrivati qui in una specie di tinozza. Il nostro carico era costituito per i nove decimi da ghiaccio, per i serbatoi del “ware” organico. Eravamo immersi nella pasta antiaccelerazione, prossimi alla morte. Avevamo i nostri robot e i nostri tokamak. Il resto era una sorta di miscuglio di questo e di quello. Filo elettrico, una manciata di microchip, sali e tracce di minerali. E poi avevamo tutta roba genetica: uova, semi, batteri. Siamo arrivati qui nudi, per risparmiare peso al momento del lancio. Tutto il resto l’abbiamo fatto con le nostre mani, amici. La carne contro la roccia. E la carne vince, se è abbastanza furba.

Lindsay annuì. Non aveva citato la loro arma a pulsazioni elettromagnetiche. Nessuno parlava dei cannoni.

Lei si sforzava di incantare i pirati, il suo orgoglio li pungolava. L’orgoglio della Famiglia era giustificato. Erano riusciti a destreggiarsi, arrivando alla prosperità, partendo da un “ware” organico batterico contenuto in capsule di gelatina non più grandi di capocchie di spillo. Erano diventati maestri nell’uso delle plastiche, le avevano sintetizzate dalla roccia. I loro manufatti erano economici quanto la vita stessa.

Erano cresciuti dentro la roccia, vi erano penetrati con l’implacabile persistenza dei loro corpi morbidi. ESAIRS XII era traforato dovunque di gallerie. I loro cerchi dai denti aguzzi scavavano senza sosta nuove gallerie. Avevano costruito dei ventilatori con sacchi di vinile e nervature di plastica mnemonica. Le nervature respiravano. Erano collegati al tokamak dell’impianto a fusione, e un piccolo cambiamento di voltaggio li faceva piegare e flettere, succhiando dentro l’aria con uno schiocco dei polmoni di plastica e un ansito animalesco all’espirazione. Era il suono della vita all’interno della roccia, il raschiare dei cerchi, i ventilatori che respiravano, l’improvviso gorgogliare dei fermentatori.

Avevano delle piante. Non soltanto alghe e glutine, ma anche fiori: rose, phlox, margherite, o meglio piante che avevano conosciuto quei nomi prima che il loro DNA avesse assaggiato il bisturi. Sedano, lattuga, frumento nano, spinaci, alfalfa. Bambù: con dei fili di ferro sottili e infinita pazienza, riuscivano a torcere il bambù facendone bottiglie e complessi intrichi di tubi. Uova: avevano perfino dei polli, o creature che un tempo lo erano stati, prima che le giuntatrici genetiche dei Plasmatori le trasformassero in utensili generici da caduta libera.

Erano potenti, subdoli e colmi di un odio disperato. Lindsay sapeva che stavano aspettando la loro occasione, soppesando le probabilità, calcolandole. Avrebbero attaccato per uccidere, se avessero potuto farlo, ma soltanto quando avessero potuto massimizzare le loro possibilità di sopravvivenza.

Ma sapeva anche che, al passare di ogni giorno, con ogni accordo o concessione minore, un altro sottile strato di lacca coprente si stendeva sopra la breccia che si spalancava fra loro. Giorno dopo giorno un nuovo status quo lottava per affermarsi, una fragile distensione sostenuta soltanto dall’abitudine.

ESAIRS XII
3-2-’17

— Ehi, Segretario di Stato.

Lindsay si svegliò. Nella gravità fantasma dell’asteroide aveva finito in maniera impercettibile per adagiarsi sul fondo della sua caverna. Chiamavano quella sua tana l’“Ambasciata”. Con l’approvazione dell’Atto d’Integrazione, Lindsay si era trasferito all’interno della roccia insieme al resto della DMF.

Era stato Paolo a parlare. Fazil era con lui. I due giovani indossavano dei poncho ricamati e delle rigide corone di plastica che trattenevano le loro fluttuanti criniere, le quali ricadevano fino alle spalle.

I batteri cutanei li avevano colpiti duramente. Ogni giorno avevano un aspetto peggiore. Il collo di Paolo era talmente infiammato che la sua gola pareva tagliata. L’orecchio sinistro di Fazil era pure infettato: teneva la testa inclinata su un lato.

— Vogliamo farti vedere qualcosa — disse Paolo. — Puoi venire con noi, signor Segretario? In silenzio. — La sua voce era gentile, i suoi occhi color nocciola tanto limpidi e innocenti che Lindsay seppe subito che aveva in mente qualcosa. L’avrebbero ucciso? Non ancora. Lindsay si allacciò un poncho e lottò con i nodi complicati dei suoi sandali. — Sono a vostra disposizione — disse infine.

Entrarono galleggiando nel corridoio. I corridoi fra le cavità scavate nella roccia erano soltanto dei lunghi budelli di un metro di diametro. Gli uomini del clan dei Mavrides si proiettavano lungo questi passaggi con rapidi scatti da un lato all’altro, simili a quelli delle lucertole. Lindsay era il più lento. Il braccio ferito gli faceva particolarmente male, e la mano gli pesava come una mazza.

Planarono in silenzio attraverso la morbida luminosità gialla di una delle camere di fermentazione. Le estremità smussate, simili a capezzoli, di tre sacchi di “ware” organico sporgevano dentro alla stanza. Erano simili a cordoni di salsicce ficcati dentro a gallerie di pietra. Ogni galleria conteneva una serie di sacchi, collegati da filtri. Ogni sacco passava la sua emissione a quello successivo. L’ultimo sacco aveva in funzione una filiera, un motore a memoria-plastica, che ticchettava lentamente. Un tubo cavo di perfetta e limpida resina acrilica si arricciava in caduta libera, fumando mentre si essiccava.

Entrarono in un’altra nera galleria. Le gallerie erano tutte identiche, tutte perfettamente lisce. Non c’era bisogno di luce. Qualunque genio avrebbe potuto facilmente mandare a memoria il labirinto.

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