Il sangue congestionato filtrò oltre il laccio, invadendo il torace di Lindsay. Lanciò un grido soffocato e si piegò in due, il volto grigio-cenere. La droga strisciava intorno al suo cuore come un filo rovente. Inghiottì la lingua e fu colto dalle convulsioni. Per due giorni fu vicino alla morte. Quando si fu ripreso, gli altri avevano raggiunto una decisione. Nessuno parlò mai più del test. Non era mai successo.
A bordo della Red Consensus
19-12-’16
— È soltanto una roccia — disse il Secondo Deputato. Spazzò via uno scarafaggio dallo schermo.
— È il bersaglio — disse il Presidente della Camera. La cabina di comando era alimentata al minimo, e il familiare coro di schiocchi, cigolii e rombi si era ridotto a un debole e fremente raschiare. Il volto del Presidente della Camera era verdastro, a causa della luce dello schermo. — Se la sono svignata… Non ci sono infrarossi.
Lindsay si lasciò andare alla deriva in silenzio fino a un angolo della cabina di comando, senza guardare lo schermo. Si stava sfregando la pelle tatuata del braccio destro, lentamente, lo sguardo assente, fisso sul niente. La pelle si era rimarginata, ma la combinazione dei farmaci aveva bruciato i nervi schiacciati. La pelle gli pareva gommosa sotto il freddo inchiostro dei suoi tatuaggi. La punta delle dita della mano destra era intorpidita.
Non aveva nessuna fiducia nella capacità dei Plasmatori di trattenersi. La vela solare rigonfia della Red Consensus avrebbe dovuto nascondere la nave stessa al radar, impedendo un attacco preventivo da parte dell’asteroide. Ma si aspettava di sentire da un momento all’altro l’ultimo mezzo secondo d’impatto quando le armi dei Plasmatori avessero ridotto a brandelli la nave.
Udì provenire dall’interno della cabina del cannone il ronzio del seggiolino del cannoniere quando il Terzo Magistrato lo spostò, innervosito.
— Stanno aspettando che passiamo — disse il Presidente. — Stanno aspettando che spariamo da dietro la vela.
— Non possono spazzarci via così semplicemente — interloquì il Secondo Senatore con voce lamentevole. — Potremmo essere cani solari. Disertori mech.
— Rimani su quel fuco, Dep Tre! — ordinò il Presidente.
Esibendo un radioso sorriso, il Dep Tre si tolse gli auricolari e girò il viso coperto dagli occhialoni verso gli altri. — Cos’ha detto, signor Presidente?
— Ho detto di rimanere su quelle frequenze! — urlò il Presidente in risposta.
— Oh, quello — disse il Dep Tre. Si grattò dentro il collare della tuta spaziale, tenendo i doppi auricolari vicini a un orecchio. — Lo stavo già facendo. E… oh, sì. — Fece una pausa mentre l’equipaggio tratteneva il respiro. Gli occhialoni gli impedivano di vedere, ma allungò una mano senza sbagliare e sfiorò gli interruttori sul pannello davanti a lui. La cabina di comando si riempì di un ronzio staccato, acuto e lamentoso.
— Innesto il visivo — spiegò il Dep Tre, battendo sulla tastiera. L’asteroide svanì, sostituito sullo schermo da colonne e colonne d’insensatezze alfanumeriche:
TCGAGGCTATCGTAGCTAAAGCTCTCCCGATCGATATCGTCTCGAGATCGATCGATCGTTAGCTAGTTGTCGATCG TAAGGGTCAGCTA …
— È il codice genetico dei Plasmatori — disse il Presidente della Camera. — Te l’ho detto.
— Il loro ultimo segnale prima che li facciamo fuori — esclamò il Presidente, baldanzoso. — Da questo istante proclamo la legge marziale. Voglio tutti in assetto da combattimento, salvo te, Segretario di Stato. Scattare.
L’equipaggio corse via. I loro nervi si stavano sdipanando in quella confusione di azione. Lindsay li osservò mentre si allontanavano, pensando al flusso di dati diretti al Consiglio dell’Anello che aveva tradito l’avamposto.
Forse i Plasmatori avevano buttato via la loro vita con quell’ultimo grido, ma il nemico, almeno, aveva qualcuno che avrebbe saputo della loro morte e li avrebbe pianti.
ESAIRS XII
21-12-’16
Chiamarono l’asteroide ESAIRS XII, l’unico nome che avesse mai avuto, tirato fuori da qualche antico catalogo. ESAIRS XII era un grumo di scoria a forma di patata, lungo mezzo chilometro.
La Red Consensus era sospesa sopra il suo equatore rigonfio, ancorata ad esso. Lindsay discese lungo il cavo aiutandosi con una mano sola. Visto attraverso la visiera del suo casco, l’asteroide era scuro, con lunghe strisce di polvere di minerale grezzo carbonifero. Un grigio gelido e delle macchie bianche confuse contrassegnavano i punti d’impatto carbonizzati delle collisioni primeve. I crateri più grandi avevano un diametro di ottanta metri, enormi pozzi neri lavici di loppa venata di crepe e schizzi di vetro fuso solidificato.
Lindsay toccò il suolo. La distesa sotto i suoi stivali era come pomice, una statica superficie biancastra di bolle pietrificate. Riusciva a vedere l’asteroide in tutta la sua lunghezza, ma in direzione dell’ampiezza questo s’incurvava scomparendo alla vista dietro all’orizzonte a una dozzina di passi di distanza. Si chinò e iniziò ad avanzare, afferrandosi a sporgenze e a cavità con le dita ruvide dei suoi guanti, trainando se stesso. La mano destra era in cattivo stato. Il duro tessuto interno del guanto sembrava morbido come il cotone alle sue dita dai nervi bruciati.
Strisciò, con le gambe che gli ballonzolavano senza una meta, sopra l’orlo d’un cratere oblungo, la scalfittura cicatrizzata di qualche collisione quasi mancata. Era profondo circa nove metri, e il suo fondo era un’ampia vescica lisciata dal gas di basalto verdastro. Un lungo crinale tumido di roccia fusa era quasi decollato nello spazio ma era rimasto congelato conservando fino all’ultima increspatura e deformazione…
Slittò di lato. Il crinale roccioso si rattrappiva, spiegazzandosi come la seta, le sue deformazioni e le sue gobbe si rivelavano come una sorta di camuffamento ombreggiato su una pellicola di plastica.
Una caverna si spalancava di sotto. Era una galleria che s’incurvava subito sotto la superficie.
Lindsay discese con estrema cautela il pendio e si lanciò dentro la galleria. Si aggrappò alle sue pareti. Allungandosi verso l’alto, si spinse contro il soffitto della galleria per piantarvi i piedi.
La luce del sole albeggiava sopra il minuscolo orizzonte, piovendo dentro la galleria.
Questa, era esattamente circolare e inumanamente liscia. Sei tracce di sottile nastro metallico vi erano state incollate con resina epossidica. Correvano lungo il corridoio nel senso della sua lunghezza. Alla cruda luce del sole, le tracce avevano il luccichio del rame.
All’apparenza, la galleria cingeva completamente l’asteroide, incurvandosi rapidamente come l’orizzonte. Davanti a lui, quasi nascosto dalla curvatura della galleria, intravide il vago luccichio della plastica marrone. Saltando e spingendosi lungo le pareti, rimbalzò verso di essa in caduta libera.
Era una pellicola di plastica con incorporata una camera d’equilibrio di tessuto. Lindsay aprì la cerniera lampo della camera di equilibrio ed entrò. La chiuse nuovamente dietro di sé. Aprì una seconda cerniera sulla parete interna della camera, e vi si arrampicò dentro.
Si trovò in un cavernoso pallone nero e ocra. Era stato gonfiato all’interno della galleria in modo che vi aderisse alla perfezione.
Una figura con indosso una tuta di plastica per la decontaminazione galleggiava a testa in giù sotto il soffitto, una sagoma d’un verde brillante contro degli arabeschi neri spruzzati a mano su uno sfondo ocra. La tuta di Lindsay si era appiattita, indicando la presenza della pressione atmosferica. Lindsay si tolse il casco e inspirò con cautela. Era un miscuglio di ossigeno e azoto, aria standard.
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