— Mando fuori il “fuco” — disse, rivolto a Lindsay, mentre mangiavano insieme nella cabina di comando. — Puoi collegarti con esso da qui. È quasi come essere all’esterno.
Lindsay mise da parte il suo barattolo vuoto di pasta verde. Il fuco era un’antica sonda planetaria, trovata in un’orbita da qualche equipaggio da lungo tempo dimenticato, ma i suoi telescopi e le antenne a microonde erano ancora utili, e potevano anche trasmettere. A centinaia di klick fuori, attraverso il suo cavo a fibre ottiche, il fuco senza equipaggio poteva captare le trasmissioni dallo spazio profondo e ingannare i radar nemici con contromisure elettroniche.
— Ma sicuro, cittadino — disse Lindsay. — Diavolo!
Dep Tre annuì con passione. — Sarà bellissimo, Segretario di Stato. Il tuo cervello si diffonderà così in fretta e così sottilmente che per te sarà una seconda pelle.
— Non intendo prendere nessuna droga — obiettò Lindsay, guardingo.
— Non puoi prendere delle droghe — disse Dep Tre. — Se prendi delle droghe, il Sole non ti parlerà. — Prese su dalla consolle un paio di video-occhialoni e li infilò sulla testa di Lindsay. All’interno degli occhialoni un minuscolo sistema video proiettava le immagini direttamente sui bulbi oculari. In quel momento il fuco era disattivato. Lindsay vide soltanto una sequenza di azzurri ed enigmatici segnali alfanumerici posti di traverso in fondo al suo campo visivo. Non provava nessuna sensazione di trovarsi davanti a uno schermo. — Finora tutto bene — disse.
Udì una serie di scatti provenienti dalla tastiera quando il Dep Tre attivò il fuco. Poi l’intera nave subì una leggera scossa quando la sonda robot si staccò. Lindsay sentì la sua guida che indossava un altro paio di video-occhialoni, poi, attraverso le telecamere del fuco, vide per la prima volta l’esterno della Consensus.
Faceva pena vedere l’aspetto sudicio e sciatto della loro nave. I vecchi motori erano stati strappati via dalla poppa e sostituiti con un’improvvisata galleria ad aggancio, un tubo a fisarmonica lungo e flessibile, con i denti frastagliati di una trivella mineraria a una sua estremità. Un nuovo motore, uno dei SEPS elettromagnetici di vecchio tipo dei Plasmatori, era stato saldato alle estremità di quattro lunghi supporti.
Il motore globulare rappresentava un rischio a causa delle microonde, e veniva tenuto il più possibile lontano dagli alloggiamenti dell’equipaggio. I cavi per la trasmissione dei comandi avvolti in lamina metallica s’inerpicavano come serpenti su per i sostegni, che erano stati goffamente imbullonati al ponte di poppa.
Accanto ai sostegni si trovava, come rannicchiata, la massa inerte di un robot minerario. Nel vederlo là in attesa, privo di alimentazione, Lindsay si rese conto di quale poderosa arma rappresentasse: le sue fauci spalancate, affilate come rasoi, potevano lacerare una nave come se fosse fatta di carta stagnola.
Un altro meccanismo aderiva allo scafo: un razzo parassita. Il vecchio scafo corrugato, dipinto con un verde d’una brutta, indisponente sfumatura, era coperto di raschiature e graffi dovuti alle zampe magnetiche del piccolo razzo. Essendo mobile, il parassita svolgeva tutto il lavoro dei retrorazzi.
Il terzo ponte, con il suo sistema di sopravvivenza, era un groviglio disordinato, un impasto di spropositate apparecchiature per la ventilazione e tubi idraulici, alcuni così vecchi che i loro isolanti erano scoppiati, rimanendo sospesi in caduta libera come tante tumide stelle filanti. — Non ti preoccupare, quelli non li usiamo — lo rassicurò, con insolita loquacità, Dep Tre.
I quattro pannelli solari congiunti si estendevano lateralmente dal quarto ponte, una luccicante croce di silicone nero intersecato da una griglia di rame. Il brutto muso del cannone a raggi di particelle era appena visibile dietro la curva dello scafo.
— Una piccola stella-nazione sotto l’occhio del Sole — disse il Dep Tre. Fece descrivere una virata al fuco. Lindsay vide il cavo che teneva impastoiato il fuco. Poi le sue telecamere misero a fuoco il sartiame della vela solare dell’astronave. Nella prua c’era una cavità d’immagazzinamento per il tessuto ripiegato a fisarmonica, che adesso era vuota; le diciannove tonnellate di pellicola metallica erano distese grazie alla leggera pressione lungo un arco d’argento largo due chilometri. La telecamera avvicinò la scena con una zoomata e Lindsay vide, quando l’immagine s’ingrandì, che anche la vela era vecchia: increspata qua e là, e impallinata dai numerosi fori dovuti alle micrometeore.
— Il Presidente dice che la prossima volta che potremo permettercelo compreremo uno spruzzatore monostrato e stamperemo un grosso teschio di mamma-brucia e le folgori incrociate sul lato esterno di quella — l’informò il Terzo Deputato.
— Buona idea — annuì Lindsay. Udì altri ticchettii, e d’un tratto il fuco dipanò il proprio cavo addentrandosi nello spazio profondo ad una velocità terrificante. Nel giro di pochi istanti la Red Consensus si ridusse alle dimensioni di un ditale accanto all’ampia chiazza della sua vela che si era ridotta alle dimensioni di un tavolo. Lindsay fu preso allo stomaco da una sensazione di vertigine e cercò, alla cieca, di aggrapparsi alla consolle. Serrò gli occhi dentro gli occhialoni, poi li riaprì al cosmico panorama dello spazio profondo.
— La Via Lattea — disse il Terzo Deputato. Un immenso arco bianco si allargava attraverso una buona metà della realtà. Lindsay perse il controllo della prospettiva. Per un attimo ebbe l’impressione che quel miliardo di puntolini bianchi dell’orlo galattico premessero impietosamente sui suoi bulbi oculari. Chiuse un’altra volta gli occhi, profondamente grato di non trovarsi effettivamente là fuori.
— È da lì che arrivano gli alieni — lo informò il Dep Tre.
Lindsay aprì gli occhi. Era soltanto una bolla, si disse, con delle macchioline bianche schizzettate su di essa. Una bolla con lui stesso al centro… ecco, adesso si era stabilizzata. — Quali alieni? — chiese.
— Gli alieni, Segretario di Stato. — Il Terzo Deputato era genuinamente sorpreso. — Non sai che sono là fuori?
— Sicuro — annuì Lindsay.
— Vuoi guardare il Sole per un po’? Forse ti dirà qualcosa.
— Che ne dici di Marte? — suggerì Lindsay.
— Non va bene. È in opposizione. Però possiamo provare con gli asteroidi. Controlliamo l’eclittica. — Vi fu un attimo di silenzio, riempito dalla musica in sordina della cabina di comando, mentre le stelle ruotavano. Lindsay usò l’haragei e avvertì la rotazione del fuco come un movimento uniforme intorno al proprio centro di gravità. Il costante addestramento dava i suoi frutti. Si sentiva solido, sicuro, fiducioso. Respirava dalle profondità dello stomaco.
— Là ce n’è uno — disse il Deputato. Un lontano puntolino luminoso centrò il suo campo visivo, gonfiandosi poi fino a diventare una chiazza. Quando parve aver assunto all’incirca le dimensioni di un dito, i suoi bordi divennero sfumati e persero definizione. Il Terzo Deputato inserì la risoluzione computerizzata, e l’immagine crebbe ancora fino a diventare un cilindro dalle punte arrotondate, che brillava con i falsi colori d’una scala cromatica convenzionale.
— È un’esca — disse il Dep Tre.
— Lo credi?
— Proprio così. Ne ho viste altre. Opera dei Plasmatori. È solo un guscio di altopolimeri, un pallone cavo a tenuta stagna. Potrebbe esserci qualcuno dentro.
— Non ne avevo mai visto uno — disse Lindsay.
— Ce ne sono a migliaia. — Ed era vero. Gli arraffa-concessioni della Cintura da anni ormai producevano quelle esche. I gusci di polimero erano grandi abbastanza da ospitare un piccolo avamposto di spie di dati, dirottatori di fuchi, o disertori. I potenziali cani solari potevano nascondervisi dalle squadre di polizia, oppure gli esperti plasmatori di cifrari potevano rimanere in agguato dentro di essi, intercettando le trasmissioni intercartello. La strategia consisteva nel sovaccaricare i sistemi di braccaggio dei Mech con uno sciame di potenziali nascondigli. I Plasmatori si erano attivati in modo massiccio per ottenere il controllo della Cintura e c’erano ancora gruppi isolati di agenti dei Plasmatori che si spostavano da cellula a cellula dietro le linee dei Mech mentre il Consiglio dell’Anello era assediato. Molte esche erano attrezzate con sistemi di trasmissioni propagandistiche oppure con congegni per il rilevamento dei venti solari che erano in grado di deviare le loro orbite; alcuni potevano ripetutamente espandersi e restringersi, scomparendo dai radar dei Mech. Costava assai meno produrli di quanto si doveva spendere per rintracciarli e distruggerli, dando così ai Plasmatori un vantaggio economico.
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