Eppure la follia suprema era stata evitata. C’era la guerra, certo; imboscate su piccola scala, navi spaziali distrutte, minuscole concessioni minerarie sottratte ai loro abitanti con l’assassinio degli stessi: tutti i feroci e oscuri conflitti che esplodevano come scintille dal macinante impatto delle superpotenze dei Mech e dei Plasmatori. Ma l’umanità era sopravvissuta, anzi, era fiorita.
Era un trionfo fondamentale e profondo. Insieme alla paura che albergava nel profondo della sua mente c’erano anche una speranza e una fiducia più forti. Era una vittoria che apparteneva a tutti: una vittoria così completa e profonda che era scomparsa alla vista, e apparteneva a quel segreto regno della mente nel quale ogni altra cosa trova la sua origine.
Eppure quei pirati, come dovevano fare i pirati, controllavano un’arma di distruzione di massa. Era un’antica macchina, la reliquia di un’era di follia, quando gli uomini per la prima volta avevano aperto il vaso di Pandora della fisica. Un’era in cui gli esplosivi cosmici si erano diffusi sulla superficie della Terra a macchia d’olio.
— L’ho sparato io stesso la settimana scorsa — disse il Presidente — perciò so che i servizi di sicurezza dello Zaibatsu non hanno minato il bastardo. Alcuni dei cartelli mech lo farebbero. Ti arrestano con i vascelli doganali a quattromila klick di distanza, ti chiudono l’armamentario, poi mettono un chip ritardante nei circuiti… tu tiri il grilletto, il chip si vaporizza, gas nervino… Non fa nessuna differenza. Tira quel grilletto da combattimento, e sei morto lo stesso, al novantanove per cento. Anche i plasmatori che stiamo per attaccare hanno roba da Armageddon. Noi dobbiamo avere tutto quello che hanno loro. Dobbiamo poter fare qualunque cosa che possono fare loro. È la guerra nucleare, soldato, altrimenti non potremmo parlarci… Adesso, fuoco!
— Fuoco! — gridò Lindsay. Non accadde nulla. Il cannone rimase silenzioso.
— Qualcosa non va — disse Lindsay.
— Il cannone?
— No, il mio braccio. Il mio braccio. Non riesco a staccarlo dall’impugnatura della pistola. I muscoli si sono annodati.
— I muscoli… cosa? — esclamò il Presidente. Strinse l’avambraccio di Lindsay. I muscoli sporgevano come cavi, serrati nella rigidità d’una paralisi.
— Oh, Dio — fece Lindsay, con una punta d’isterismo nella voce ben esercitata. — Non riesco a sentire la tua mano. Stringimi il braccio.
Il Presidente gli stritolò il braccio con la sua tremenda forza. — Niente — disse Lindsay. Quand’era ancora nella tuta spaziale, aveva riempito il braccio di anestetico. Il crampo era un espediente diplomatico. Non era un espediente facile. Non aveva avuto l’intenzione che le sue dita venissero sorprese intorno all’impugnatura.
Il Presidente affondò la punta callosa delle sue dita dentro il solco esterno del gomito di Lindsay. Malgrado l’anestetico, il dolore trafisse i suoi nervi schiacciati. La sua mano sussultò leggermente, lasciando la presa. — L’ho sentito soltanto un po’ — annunciò, calmo. C’era qualcosa che poteva fare con il dolore, se la vasopressina l’avesse aiutato a ricordare… Ecco. Il dolore si trasformò, perse la sua colorazione, divenne qualcosa di perversamente simile al piacere.
— Potrei provare con la sinistra — disse Lindsay sportivamente. — Naturalmente, se anche il braccio sinistro dovesse partire, allora…
— Cos’è che non va con te, Segretario di Stato? — Il Presidente affondò con crudeltà il pollice dentro il complesso dei nervi del polso di Lindsay. Lindsay avvertì quell’angosciante dolore come un fresco lenzuolo nero drappeggiato attraverso il suo cervello. Quasi perse conoscenza; i suoi occhi ammiccarono, ed ebbe un pallido sorriso.
— Dev’essere qualcosa che mi hanno fatto i Plasmatori. Programmazione neurale. Hanno sistemato le cose in modo che non mi riuscisse mai di farlo. — Deglutì a fatica. — È come se non fosse il mio braccio. — Il sudore gl’imperlava la fronte. Era talmente legato alla vasopressina da riuscire a sentire ogni muscolo del suo viso come un’entità separata, proprio come gli avevano insegnato all’accademia.
— Questo non lo posso accettare — ribatté il Presidente. — Se non puoi tirare quel grilletto, allora non puoi essere uno di noi.
— Potrebbe essere possibile improvvisare una specie di marchingegno meccanico — si affrettò a dire Lindsay, in tono perspicace. — Una specie di guanto mosso da pistoni che potrei infilarci sopra. Io sono disposto, signore. È questo che non lo è. — Sollevò rigidamente il braccio, poi lo abbatté sul durissimo spigolo del cannone. Lo colpì di nuovo. — Non riesco a sentirlo. — La pelle si sbucciò sopra il muscolo. Piccole, brillanti gocce di sangue schizzarono in alto, galleggiando a mezz’aria. Il braccio rimase rigido. Un tentacolo increspato di sangue simile a un’ameba colò fuori dal lungo graffio.
— Non possiamo processare un braccio per alto tradimento — disse il Presidente.
Lindsay scrollò una sola spalla. — Sto facendo del mio meglio, signore. — Sapeva che non avrebbe mai tirato quel grilletto. Pensava che avrebbero potuto ucciderlo per questo, anche se sperava di riuscire a scamparla. La vita era importante, ma non così cruciale quanto il grilletto.
— Vedremo cosa dirà il Giudice Due.
Lindsay era disponibile. Quel tanto, era andato secondo il suo piano.
Il Giudice Due dormiva in infermeria. La donna si svegliò con un sussulto, gli occhi spiritati. Vide il sangue, poi fissò il Presidente. — All’anima della bruciatura, l’hai ferito di nuovo.
— Non io — replicò il Presidente, con un fremito di confusione e un senso di colpa. Quindi le spiegò la situazione, mentre il Giudice Due esaminava il braccio di Lindsay e lo bendava. — Potrebbe essere psicosomatico.
— Voglio che quel braccio si muova — intimò il Presidente. — Fallo, soldato.
— Sì, signore — rispose il Giudice, sorpreso. La donna non si era resa conto che ora si trovavano sotto il regolamento militare. Si grattò la testa. — Sono fuori dal mio campo. Sono soltanto un meccanico, non un plasmatore psicotecnico. — Lanciò un’occhiata in tralice al Presidente. Questi appariva irremovibile. — Lasciami pensare… questo dovrebbe andare. — Tirò fuori un’altra fiala, etichettata con un’illeggibile scribacchiatura. — Un convulsivo. Cinque volte più potente del segnale d’azione dei nervi. Se questo gli entrerà nel sangue, lo scuoterà sul serio. — Fissò Lindsay con aria colpevole. — Questo ti farà un po’ male… parecchio.
Lindsay intuì la sua possibilità. Il suo braccio era pieno di anestetico, ma avrebbe potuto simulare il dolore. Se avesse dato l’impressione di soffrire quel tanto che bastava, forse si sarebbero scordati del test. Avrebbero ritenuto che fosse stato punito abbastanza per qualcosa che non era colpa sua. Il Giudice era solidale. Avrebbe potuto far leva su di lei contro il Presidente. Il loro senso di colpa avrebbe fatto il resto.
Parlò con voce severa: — Il Presidente sa meglio di tutti ciò che va fatto. Dovresti eseguire i suoi ordini. Non preoccuparti per il mio braccio. È comunque intorpidito.
— Questo lo sentirai, ’Stato. Se non sei morto. — L’ago gli penetrò nella pelle. La donna gli strinse con forza il laccio emostatico intorno al bicipite. I tatuaggi s’incresparono quando le sue vene cominciarono a gonfiarsi.
Quando quell’agonia di dolore lo colpì, seppe che l’anestetico era inutile. Il convulsivo lo ustionò come se fosse un acido.
— Brucia! — urlò. — Brucia! — Il suo braccio s’increspò, i muscoli si contrassero in modo bizzarro. Cominciò a dibattersi in preda agli spasimi, strappando un’estremità del laccio dalla stretta del Giudice.
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