Bruce Sterling - La matrice spezzata

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È considerata l'opera che, insieme a Neuromante (1984) di William Gibson, ha dato inizio alla stagione della narrativa Cyberpunk.
Definito da Sterling stesso come il favorito tra i suoi libri, “La matrice spezzata” racconta di un mondo in cui l'umanità è divisa tra i rivoluzionari Shaper, favorevoli a un'umanità biologica, in lotta contro gli aristocratici Mechanist (che vorrebbero imporre il dominio della macchina) per il definitivo controllo del genere umano. Il volume comprende un romanzo e cinque racconti pubblicati tra il 1982 e il 1984, ambientati nello stesso sfondo fanta-storico e che costituiscono una sorta di minisaga, quasi una summa dell'intenso universo sterlinghiano.
Nominato per il premio Nebula per miglior romanzo in 1985, premio BSFA in 1986.

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La Red Consensus era stata affittata per distruggere un avamposto in cui si trovava uno di quei centri di produzione.

— Quando ci sarà la pace — disse il Dep Tre — potrai comperarti una dozzina di quei cosi, unirli con delle tubovie, e avrai un’ottima nazione-stazione a poco prezzo.

— Ci sarà mai pace? — chiese Lindsay.

Le pareti ronzarono quando la Red Consensus barcollò per rimettersi in linea. — Quando arriveranno gli alieni — rispose il Dep Tre.

A bordo della Red Consensus
30-11-’16

Si stavano addestrando in palestra. — Basta per oggi — disse il Presidente. — Avete tutti un ottimo aspetto. Perfino il Segretario di Stato ha capito i fondamentali.

I tre deputati risero, togliendosi il casco. Lindsay fece schioccare il sigillo e a sua volta si sfilò il casco da sopra la testa. La sessione di combattimento era durata più a lungo di quanto si fosse aspettato. Aveva nascosto dentro la tuta il tampone preso da un inalatore; l’aveva inzuppato di vasopressina. Sapeva quello che sarebbe venuto dopo, e sapeva che avrebbe avuto bisogno di tutte le risorse del suo addestramento. Ma le esalazioni erano state più intense di quanto si fosse reso conto; si sentiva stordito, e la vescica gli faceva male.

— Sei rosso, Segretario di Stato — gli disse il Presidente. — Ti manca il fiato?

— È l’aria dentro la tuta, signore — mentì Lindsay, le parole echeggiarono forti ai suoi orecchi. — L’ossigeno, signore. — La vasopressina aveva dilatato i vasi sanguigni sotto la sua pelle.

Il Primo Deputato scoppiò a ridere, con una smorfia. — ’Stato è moscio.

— Riposo, il resto di voi, cittadini. Il Segretario di Stato e io dobbiamo discutere di affari.

Le tute venivano infilate attraverso una lunga giunzione interna a forma di ferro di cavallo, disposta lungo l’inguine e le cosce. Gli altri, salvo il Terzo Deputato, uscirono dalle rispettive tute nel giro di pochi secondi. Lindsay aprì la cerniera della giunzione e scalciò le gambe fuori dai pesanti stivali magnetici.

Gli altri se ne andarono, lasciando soli Lindsay e il Presidente. Lindsay si scrollò la tuta da sopra la testa, e mentre lo faceva serrò la mano destra all’interno del voluminoso braccio della tuta, affondando un ago ipodermico in profondità dentro la base del palmo della mano. Poi strappò fuori l’ago e lo lasciò galleggiare giù, dentro le dita guantate.

Lasciò la tuta aperta perché si arieggiasse, e se la cacciò sotto il braccio. Adesso nessuno l’avrebbe toccata; adesso apparteneva a lui, Lindsay, con lo stemma diplomatico della DMF su entrambe le spalle. Lindsay seguì il Presidente fino al ponte soprastante e depositò la tuta sulla sua rastrelliera.

Lui e l’altro erano soli nello “sgabuzzino delle scope”. Il volto del Presidente tradiva l’ansia. — Sei pronto, soldato? Ti senti pronto? Ideologicamente, voglio dire.

— Sì, signore — rispose Lindsay. — Ho deciso, signore.

— Allora, seguimi. — Salirono altri due ponti, fino alla cabina di comando. Il Presidente si tirò su, entrando prima con la testa, dentro l’angusta armeria e quindi dentro lo scomparto del cannone.

Lindsay lo seguì. La testa gli pulsava, i vasi sanguigni dilatati gli martellavano ritmicamente. Si sentiva più affilato d’una scheggia di vetro. Tirò un profondo respiro, quindi si issò, entrando per i piedi, dentro lo scomparto del cannone. Piombò subito in una sorta d’universo paranoico.

— Sei pronto?

— Sì, signore — dichiarò Lindsay. Lentamente, si assicurò con le cinghie allo scheletrico seggiolino dei comandi. L’antico cannone appariva sinistro, impressionante. D’un tratto provò un lampo d’intuizione, una certezza gelida come l’acciaio, che in realtà il cannone fosse puntato contro le sue budella. Tirare il grilletto avrebbe significato ridurre a brandelli se stesso.

Lindsay ricordava le procedure. Nello stato in cui si trovava, era come se fossero state stampate nel suo cervello. Passò la mano sulla superficie nero-opaca del quadro di comando e diede energia con un colpetto dell’interruttore a scatto. Dietro di lui la musica ovattata della cabina di comando scese di un’ottava quando iniziò il prelievo di energia. Un’intera fila di maligni blip rossi e di altre spie si accese di colpo sotto l’arcano azzurro dello schermo del bersaglio.

Lindsay guardò oltre lo schermo. Lo sguardo gli si offuscò. C’era una lieve iridescenza, come quella d’un sottile strato d’olio, sui sostegni innervati lungo la canna del cannone. Costolature spesse e nere, dagli orli duri: magneti a superconduttori, dai quali parevano colare spire simili a budella fatte di cavi elettrici coperti di sottili fogli metallici.

Era una pornografia di morte. Una degradazione del genio umano alla più abbietta prostituzione che sarebbe sfociata nel suicidio razziale.

Lindsay attivò l’interruttore che armava il cannone, e sollevò la prima leva di sicurezza. Infilò la mano dentro la cavità dietro il dispositivo di blocco. Le sue dita presero posizione intorno alle zigrinature d’una impugnatura di plastica. Spostò lateralmente con il pollice un altro arresto di sicurezza. La macchina cominciò ad emettere un ronzio lamentoso.

— Tutti noi dobbiamo farlo — disse il Presidente. — Non può essere affidato ad uno di noi soltanto.

— Capisco, signore — annuì Lindsay. Aveva ripassato fra sé quelle parole. Il cannone non prendeva di mira niente, era puntato fuori dall’eclittica, verso il vuoto spazio galattico. Nessuno sarebbe stato danneggiato. Tutto quello che doveva fare era tirare il grilletto… Non sarebbe stato capace di farlo.

— Tutti noi l’odiamo — dichiarò il Presidente. — Il cannone rimane chiuso per tutto il tempo, lo giuro. Ma dobbiamo averlo. Non puoi mai sapere cosa ti troverai ad affrontare nel corso della prossima azione. Forse il colpo grosso. Il colpo che ci permetterà di comperarci la strada dentro un cartello, di far di noi, nuovamente, una nazione. Poi potremo buttare nella spazzatura questo mostro.

— Sì, signore. — Non era qualcosa che riuscisse ad affrontare direttamente, né qualcosa a cui riuscisse a pensare con freddezza. Era troppo profondo… era la base dell’universo.

I mondi potevano esplodere. Le paratie contenevano la vita stessa, e fuori da quelle paratie e da quelle camere di equilibrio incombeva un’oscurità totalmente spietata, il nulla letale del nudo spazio. Nei vecchi circumlunari, nei moderni cartelli mech, nel Consiglio dell’Anello dei Plasmatori, perfino nei remotissimi avamposti dei minatori cometari e nelle avvampanti fonderie dell’orbita intra-mercuriana, ogni singolo essere pensante portava in sé questa consapevolezza. Troppe generazioni erano vissute e morte sotto l’ombra della catastrofe. Ognuno ne era rimasto impregnato sin dall’infanzia.

Gli habitat erano sacri: sacri perché erano deboli. La fragilità era universale. Una volta che un singolo mondo veniva deliberatamente distrutto, non poteva più esserci nessuna sicurezza da nessuna parte, per nessuno. Ogni singolo mondo sarebbe esploso in mille inferni di guerra totale.

Non c’era nessuna vera sicurezza. Non ce n’era mai stata nessuna. C’erano cento modi per uccidere un mondo: fuoco, esplosioni, veleno, sabotaggi. La costante vigilanza esercitata da tutte le diverse società poteva soltanto ridurre il rischio. Il potere di distruggere era nelle mani di tutti. Tutti condividevano il fardello della responsabilità. Lo spettro della distruzione aveva spezzato il paradigma morale di ciascun pianeta e di ciascuna ideologia.

I destini dell’uomo nello spazio non erano stati facili, e l’universo di Lindsay non era di quelli semplici. C’erano epidemie di suicidi, acerrime lotte di potere, rabbiosi pregiudizi tecnorazziali, la rovinosa soppressione di intere società.

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