Lindsay esaminò il suo braccio destro. L’osso si era saldato bene, ma aveva messo su tanti muscoli che i disegni erano distorti. Serpenti grossi come cavi coassiali con occhi grandi come schermi televisivi, bianche teste di morto con ali piatte simili a pannelli solari, pugnali con serti di folgori, e dovunque, svolazzanti lungo di essi e fra essi, un’orda di bianche falene. La pelle del suo braccio dal polso ai bicipiti era così carica d’inchiostro che non sudava più e risultava fredda al tocco.
— È stato fatto molto bene — disse, mentre l’ago gli affondava nel braccio attraverso l’occhiaia vuota di un teschio. — Ma aspetta fino a quando non avrò finito di metter su muscoli anche da tutte le altre parti, d’accordo?
— Sogni d’oro — rispose la donna.
Di notte la Repubblica era veramente se stessa. I preservazionisti preferivano la notte, quando i vigili occhi dei vecchi erano chiusi nel sonno.
Le verità nascoste alla luce del giorno si palesavano alle avvampanti luci notturne. L’energia solare dei pannelli energetici era la valuta della Repubblica. Solo i più ricchi potevano permettersi di sperperare il potere finanziario.
Alla sua destra, all’estremità nord del cilindro del mondo, le luci si riversavano fuori dagli ospedali. Nelle loro cliniche intorno all’asse del cilindro, le fragili ossa dei Vecchi Radicali riposavano comode, quasi in caduta libera. Una striscia di luce filtrava dalle lontane finestre e dalle piattaforme di atterraggio, una Via Lattea di ricchezza, imbrattata e fasulla.
D’un tratto Lindsay, sollevando lo sguardo, si trovò dietro a quelle finestre. Era l’alloggio del suo bisnonno. Il vecchio mechanist galleggiava in una matrice di tubi per la sopravvivenza, le sue occhiaie collegate con un input video, in un appartamento sterile inondato di ossigeno.
— Nonno, me ne vado — disse Lindsay. Il vecchio sollevò una mano, talmente paralizzata dall’artrite che le sue nocche si gonfiarono e s’incresparono, ed esplosero d’un tratto in una rete sibilante di tubi con alle estremità tanti aghi. Penetrarono nella pelle di Lindsay come tante scudisciate, aderendovi, scavando, succhiando. Lindsay aprì la bocca per urlare…
Le luci erano distanti. Stava camminando sul pannello della finestra dal vetro corroso. Emerse sul pannello dell’agricoltura. Un debole sentore di coagulo putrescente gli arrivò con il vento. Era vicino agli Agri.
Le scarpe di Lindsay frusciarono acute attraverso l’erbavetro geneticamente alterata ai bordi della palude. Le cavallette frinivano nel sottobosco, e una creatura chitinosa grande come un ratto fuggì davanti a lui. Philip Constantine aveva posto l’assedio al putridume.
Il vento soffiava a raffiche. La tenda di Constantine sbatteva sonoramente in mezzo alla tenebra. Accanto ai lembi della tenda due globi piantati su dei pali brillavano d’una bioluminescenza gialla.
L’ampia tenda di Constantine dominava le zone di confine coperte d’erba di filo elettrico con gli Agri a nord e i fertili campi di grano protetti dietro di essi. La terra di nessuno, dove lui combatteva contro il contagio, ticchettava e frusciava di pestilenze appena coniate nei suoi laboratori.
Dall’interno udì la voce di Constantine, soffocata dai singhiozzi.
— Philip! — diceva. Lindsay entrò.
Constantine sedeva su una panca di legno davanti ad un lungo banco metallico da laboratorio, intasato fino all’inverosimile degli oggetti di vetro dei Plasmatori. Rastrelliere colme di recipienti per campioni si ergevano come gli scaffali d’una biblioteca. Erano pieni di insetti da analizzare. Dei globi su sostegni sottili e flessibili diffondevano una fangosa luce gialla.
Constantine pareva più piccolo che mai, le sue spalle da ragazzino erano ingobbite sotto il camice da laboratorio. Aveva gli occhi rotondi iniettati di sangue e i capelli scarmigliati.
— Vera è bruciata — disse Constantine. Tremava in silenzio; si prese il viso tra le mani guantate. Lindsay si sedette sulla panca accanto a lui e gli posò le lunghe braccia ossute sul dorso.
Sedevano insieme come avevano avuto l’abitudine di fare così spesso, tanto tempo addietro. Fianco a fianco, come al solito, scherzando insieme nel gergo del Consiglio dell’Anello, passandosi e ripassandosi un inalatore speziato. Ridevano insieme, la tranquilla risata di una cospirazione condivisa da entrambi. Erano giovani e violavano tutte le regole, e dopo poche, lunghe tirate dall’inalatore, erano intelligenti più di quanto qualunque altro umano avrebbe avuto il diritto di essere.
Constantine rideva felice e la sua bocca era piena di sangue.
Lindsay si svegliò con un sussulto, aprì gli occhi e vide l’infermeria della Red Consensus. Chiuse gli occhi e subito si riaddormentò.
Le sue guance erano umide di lacrime. Non era sicuro di quanto fossero rimasti seduti insieme, singhiozzando. Pareva un periodo di tempo lunghissimo. — Possiamo parlare liberamente qui, Philip?
— Qui non hanno bisogno di spie della polizia — disse Constantine. — È per questo che abbiamo una moglie.
— Mi spiace per quello che si è interposto fra noi, Philip.
— Vera è morta — disse Constantine. — Tu ed io abbiamo fatto questo. Abbiamo congegnato la sua morte. Condividiamo quella colpa. Adesso conosciamo il nostro potere. E abbiamo scoperto le nostre differenze. — Si asciugò gli occhi con un disco rotondo di carta da filtro.
— Gli ho mentito — disse Lindsay. — Gli ho detto che mio zio è morto per arresto cardiaco. L’inchiesta l’ha confermato. Ho lasciato che lo credessero, così da poterti proteggere. Sei stato tu a ucciderlo, Philip. Ma ero io quello che avevi intenzione di uccidere. Solo che è stato mio zio a inciampare nella trappola.
— Vera ed io ne avevamo discusso — replicò Constantine. — Lei pensava che tu avresti fallito, che tu non avresti rispettato il patto. Conosceva le tue debolezze. Io le conoscevo. Ho allevato quelle falene per ottenere i pungiglioni e il veleno. La rivoluzione ha bisogno delle sue armi. E gli ho dato i feromoni per farle impazzire dalla frenesia. Lei le ha accettate con gioia.
— Non ti fidavi di me — disse Lindsay.
— E tu non sei morto.
Lindsay non disse niente.
— Guarda qua! — Constantine si sfilò uno dei suoi guanti da laboratorio. Sotto, la sua pelle olivastra si stava squamando come quella di un rettile. — È un virus — disse. — È l’immortalità. Del genere dei Plasmatori, prodotto dalle cellule stesse, non quelle protesi dei Mech. Sono impegnato, cugino.
Prese su un lembo di pelle elastica. — Vera ha scelto te, non me. Io vivrò per sempre, e all’inferno tu e le dottrine umanistiche. Adesso l’umanità è un argomento morto, cugino. Non ci sono più anime. Solo stati della mente. Se pensi di poterlo negare, allora, ecco qua. — Porse a Lindsay un bisturi per la dissezione. — Metti te stesso alla prova. Dimostra che le tue parole non erano vuote. Dimostra che sei migliore morto e umano.
Il coltello era nelle mani di Lindsay. Fissò la carne del suo polso. Fissò la gola di Constantine. Sollevò la lama sopra la propria testa, la tenne sospesa in quella posizione, e lanciò un urlo.
Quell’urlo lo svegliò, e si trovò nell’infermeria, inzuppato di sudore, mentre il Secondo Magistrato, con occhi appesantiti dagli intossicanti, gli passava una mano segnata dalle vene lungo l’interno della coscia.
A bordo della Red Consensus
20-11-’16
Il Terzo Deputato, o Dep Tre, come veniva comunemente chiamato, era un giovane tarchiato, che sorrideva in continuazione, con un naso segnato da cicatrici e capelli corti, color sabbia, tagliati a spazzola.
Come molti esperti di attività extraveicolare, era un fanatico dello spazio e passava la maggior parte del tempo fuori della nave, rimorchiato da lunghi chilometri di cavo. Le stelle gli parlavano, e il Sole era suo amico. Indossava sempre la sua tuta spaziale, perfino dentro la nave, e le zaffate degli odori corporei a lungo fermentati uscivano dal collare aperto del suo casco con un’asprezza che faceva lacrimare gli occhi.
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