Alla sua sinistra Lindsay udì il lento clack-rasp clack-rasp di un cerchio dentato che stava scavando una galleria. I cerchi erano fabbricati a mano, i loro denti lavorati pure a mano nella plastica, e ognuno aveva un suono leggermente diverso. A lui erano utili: gli davano l’orientamento. In due anni avevano eroso più di ventimila tonnellate di minerale grezzo.
Dopo che il minerale era stato raffinato, gli scarti venivano sparati nello spazio. Tutto ciò che veniva lanciato via si lasciava un foro alle spalle. Un foro lungo dieci chilometri, nero come la pece, e pieno di nodi come una lenza ingarbugliata imperlata di caverne viventi, serre, stanze per il “ware” organico, e nascondigli privati.
Fecero una curva imboccando un budello che Linsday non aveva mai usato prima. Lindsay sentì il suono raschiante d’un tappo di pietra che veniva trascinato via.
Percorsero una breve distanza, riuscendo a passare a stento e contorcendosi davanti alla massa floscia d’un ventilatore disattivato. Mentre Lindsay ci passava davanti, strisciando nel buio, il ventilatore si animò con un rantolo.
— Questo è il nostro luogo segreto — disse Paolo. — Mio e di Fazil. — La sua voce echeggiò nel buio.
Qualcosa sfrigolò rumorosamente con uno schizzare di scintille roventi. Sorpreso, Lindsay si tese, preparandosi a combattere. Paolo impugnava un corto bastone bianco arso da una fiamma all’estremità. — Una candela — disse.
— Ah, sì, capisco — annuì Lindsay.
— Giochiamo col fuoco — spiegò Paolo. — Fazil ed io.
Si trovavano in una caverna-laboratorio, scavata dentro una delle grandi vene di pietra, all’interno di ESAIRS XII. Le pareti parevano di granito agli occhi non allenati di Lindsay: una roccia grigio-rosata punteggiata di minuscoli luccichii.
— Qui c’era quarzo — disse Paolo. — Biossidi di silicio. L’abbiamo estratto per ricavarne l’ossigeno, poi Kleo se n’è dimenticata. Così abbiamo perforato questa stanza noi stessi. Giusto, Fazil?
Fazil interloquì con passione: — Proprio così, signor Segretario. Abbiamo usato perforatrici portatili e plastica a espansione. Vedi dove la roccia si è infranta e si è staccata? Abbiamo nascosto i frammenti fra i detriti destinati al lancio, e così nessuno se n’è accorto. Abbiamo lavorato per giorni e giorni, mettendo da parte i pezzi più grossi.
— Guarda — disse Paolo. Toccò la parete, la pietra s’increspò nella sua mano e venne via. In una cavità scavata nella ruvida roccia e grande quanto un armadio, galleggiava un macigno oblungo, che era sorretto da un cavo. Paolo ruppe il cavo e tirò fuori il macigno. Si muoveva con la lentezza di una lumaca. Paolo lo aiutò a frenare la sua inerzia.
Era una scultura da due tonnellate: rappresentava la testa di Paolo. — Un lavoro molto bello — disse Lindsay. — Posso? — Fece scorrere la punta delle dita sullo zigomo estremamente liscio e lucido. Gli occhi, ampi e vigili, che avevano un incavo per raffigurare le pupille, erano grandi quanto le sue mani tese. C’era un debole sorriso su quelle enormi labbra.
— Quando ci hanno mandato qui fuori, sapevamo che non saremmo mai più tornati indietro — disse Paolo. — Noi saremmo morti quaggiù, e perché? Non perché la nostra genetica fosse difettosa. Noi siamo una buona schiatta. I Mavrides dominano… - Adesso parlava più in fretta, scivolando nello slang del Consiglio dell’Anello.
Fazil annuì in silenzio.
— È soltanto una cattiva percentuale. Il caso. Siamo stati bruciati dal caso prima ancora di avere vent’anni. Non è possibile eliminare il caso. Alcune delle linee genetiche sono destinate a cadere, cosicché le altre possano sopravvivere. Se non fossimo stati Fazil ed io, sarebbe toccato a qualche altro nostro compagno di culla.
— Capisco — annuì Lindsay.
— Siamo giovani e costiamo poco. Ci buttano in mezzo alle fauci del nemico, cosicché l’inchiostro rimanga nero e non diventi rosso, il credito non diventi debito. Ma siamo vivi, io e Fazil. C’è qualcosa dentro di noi. Non vedremo mai il dieci per cento della vita che vedranno gli altri, lì a casa. Ma siamo stati qui. Esistiamo veramente.
— Vivere è meglio — disse Lindsay.
— Tu sei un traditore — aggiunse Paolo, senza alcun risentimento. — Senza una linea genetica, sei senza sangue. Sei soltanto un sistema.
— Ci sono cose più importanti del vivere — disse Fazil.
— Se aveste abbastanza tempo, potreste vivere più a lungo di questa guerra — rispose Lindsay.
Paolo sorrise. — Questa non è una guerra. Questa è evoluzione. Credi di poter sopravvivere a questo?
Lindsay scrollò le spalle. — Forse. E se dovessero arrivare gli alieni?
Paolo lo fissò sgranando gli occhi. — Tu ci credi, agli alieni?
— Forse.
— Tu sei un tipo a posto — disse Paolo.
— Come posso aiutarvi? — domandò Lindsay.
— Si tratta dell’anello di lancio. Abbiamo in programma di lanciare questa testa. Un lancio obliquo, velocità massima, massima potenza, fuori dal piano dell’eclittica. Forse un giorno qualcuno la vedrà. Forse qualcosa, fra cinquecento milioni di anni, quando non ci sarà più alcuna traccia di vita umana, la raccoglierà, la mia faccia. Non ci sono detriti fuori del piano dell’eclittica, nessuna possibilità di collisione, soltanto il morto vuoto dello spazio. Ed è buona, solida, dura roccia. A questa distanza, il Sole potrebbe diventare una gigante rossa, e riscaldarla appena. Potrebbe rimanere in orbita fino a quando il Sole avrà raggiunto lo stadio di nana bianca, forse fino a quando sarà ridotto a un ammasso di cenere nera, fino a quando la Galassia non sarà esplosa oppure il cosmo non si sarà divorato tutto. La mia immagine, per sempre.
— Soltanto che, prima, dobbiamo lanciarla — concluse Fazil.
— Al Presidente non piacerà — obiettò Lindsay. — Il primo trattato che abbiamo firmato dice: niente più lanci per tutta la sua durata. Forse più tardi, quando la nostra reciproca fiducia si sarà rafforzata.
Paolo e Fazil si scambiarono un’occhiata. Lindsay seppe subito che la cosa gli era sfuggita di mano.
— Sentite — disse. — Voi due avete parecchio talento. Dal momento che l’anello di lancio non è in funzione, avete un sacco di tempo a disposizione. Potreste scolpire le teste di tutti noi.
— No! — urlò Paolo. — È fra noi due, e basta.
— E tu, Fazil? Non ne vorresti una?
— Siamo morti — rispose Fazil. — Per fare questa abbiamo impiegato due anni. C’era soltanto il tempo di farne una. Il caso ci ha bruciati entrambi. Uno di noi due ha dovuto dare tutto per niente. Così, abbiamo deciso. Fagli vedere, Paolo.
— Non dovrebbe guardare — ribatté Paolo, risentito. — Lui non capisce.
— Voglio che lui lo sappia, Paolo — ribadì Fazil in tono severo. — Perché io devo eseguire e tu guidare. Mostraglielo, Paolo.
Paolo portò la mano sotto il suo poncho e tirò fuori una scatola di acrilico trasparente con il coperchio incernierato. Dentro si vedevano due cubi di pietra, cubi neri con dei punti bianchi sulle superna. Dadi.
Lindsay si umettò le labbra. Li aveva visti nel Consiglio dell’Anello: azzardo endemico. Non soltanto per i soldi, ma per il nocciolo stesso della personalità. Accordi segreti. Giochi di dominio. Sesso. Le lotte all’interno delle linee genetiche, fra gente che sapeva con assoluta certezza di essere alla pari. I dadi erano veloci e definitivi.
— Posso aiutarvi — disse Lindsay. — Negoziamo.
— Dovremmo essere in servizio. A monitorare la radio. Noi ce ne andiamo, signor Segretario.
— Vengo con voi — fece Lindsay.
I due plasmatori tornarono a sigillare il coperchio di pietra del loro laboratorio segreto, allontanandosi in fretta nel buio. Lindsay li seguì meglio che poteva.
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