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Fred Hoyle: A come Andromeda

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Fred Hoyle A come Andromeda
  • Название:
    A come Andromeda
  • Автор:
  • Издательство:
    Giangiacomo Feltrinelli
  • Жанр:
  • Год:
    1965
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Spense il motore e saltò giù, trascinandosi la ragazza con sé. La massa del bulldozer si stagliava nel recinto abbattuto e ostruito dalla macchina, e lui e André erano giù, nella neve. La condusse con precauzione verso il bordo della scogliera, e, piegandosi in due, corsero a nascondersi dietro alcuni cespugli che proteggevano l’estremità del sentiero del molo. La luce dell’automezzo che si avvicinava andava facendosi sempre più forte e da dietro i cespugli la vide illuminare il bulldozer. Era troppo abbagliato dai fari e dalla neve per scorgere il furgone, e il suo timore era che fosse il camion di pattuglia zeppo di uomini, poi la luce si allontanò e la neve per un momento parve diradarsi: vide che si trattava del furgone con il radar che perlustrava invano il reticolato mentre il radar girava inutilmente sopra la cabina.

Prese André per un braccio e la condusse giù per il sentiero scavato nella roccia. Alla seconda curva accese la pila e procedette abbastanza lentamente da permetterle di seguirlo dappresso senza aiuto. In qualche modo André aveva raccolto un po’ di energia e gli si teneva vicina, stringendogli la mano. In fondo al sentiero non c’erano sentinelle e il molo era completamente silenzioso, a eccezione della risacca contro le pietre. Sembravano lontani mille miglia dalla confusione sopra di loro, e questo, in un certo senso, rendeva più difficile andare avanti.

Durante l’inverno tutte le piccole imbarcazioni venivano tratte a riva e disarmate; solo la lancia di servizio, una piccola imbarcazione con motore entrobordo, era lasciata in mare e si sfregava battendo contro il fianco della banchina. Fleming l’aveva già usata, in quei mesi estivi, quando voleva andarsene per essere solo, e la conosceva con quella specie di odio-amore che un fantino può provare per un vecchio cavallo duro e ostinato. Spinse André all’interno, liberò le funi di poppa e di prua, e cercò a tentoni con la pila la manovella di avviamento. Non era facile come il bulldozer da mettere in moto; cercò di avviarla finché il sudore, misto alla neve, gli colò sul viso, e cominciò a disperare di poterla mai mettere in moto. André si raggomitolò sotto una delle frisate, mentre la neve cadeva su di loro e si scioglieva raggiungendo l’acqua che frusciava nella sentina. Non gli fece domande, e lui continuava ad agitarsi, ansimando e imprecando contro la manovella arrugginita: ma di quando in quando emetteva dei piccoli gemiti. Lui non diceva nulla, ma insisté a girare finché con uno scoppiettìo il motore si mise in moto.

Lo lasciò andare al minimo per un poco, mentre la barca vibrava e il tubo di scappamento tossiva a pelo dell’acqua, poi inserì l’albero dell’elica e aprì la valvola a farfalla. Il molo disparve subito, e si ritrovarono soli nell’immensità del mare. Fleming non era mai uscito in mare con la neve, prima di allora. Era meravigliosamente calmo. I fiocchi, cadendo, facevano mulinello attorno a loro, sciogliendosi quando arrivavano alla superficie dell’acqua. Sembrava davvero che facesse più caldo di quando erano al riparo della baia.

Di fronte al volante, che sembrava quello di un vecchio macinino, c’era una piccola bussola, e Fleming la mise in posizione con una mano, mentre con l’altra teneva la torcia alta a illuminare il quadrante. Conosceva il contorno dell’isola senza doversi concentrare, e sapeva grosso modo come destreggiarsi con le correnti. Con quel mare calmo poteva immaginare la velocità della barca, e, controllando ogni pochi minuti l’orologio poteva fare un calcolo approssimativo della distanza. L’aveva fatto così spesso in precedenza che calcolò di avere buone possibilità di fare un approdo alla cieca. Sperava solo di sentire le onde infrangersi contro le rocce dell’isola a una distanza possibile prima che ci andassero contro.

Gridò ad André di andare a prua e di guardar fuori, ma in principio lei non rispose. Lui non osava per un solo attimo abbandonare volante e bussola.

«Vai avanti, se puoi,» le gridò ancora, «e da’ un’occhiata fuori.»

La vide dirigersi verso prua.

«Non sarà una cosa lunga, ora,» disse, con più speranza di quanta ne sentisse. La barca avanzò con regolarità per dieci, quindici, trenta minuti. Più avanti trovarono una leggera risacca, si abbassarono e rollarono un po’, ma la neve smise di cadere e la notte sembrava farsi meno scura. Fleming si chiedeva se erano abbastanza lontani dalla scogliera da lasciare una traccia sullo schermo radar di qualcuno, e si chiese anche cosa stesse accadendo alle loro spalle, alla base, e cosa si stendesse davanti a loro nell’oscurità deserta. Gli occhi gli dolevano, e così la testa e la schiena, anzi, tutto il suo corpo, e si costringeva a pensare alle bruciature della ragazza e alle sue mani doloranti per sentirsi meglio.

Dopo circa quaranta minuti lei gli gridò qualcosa. Abbandonò la manovella e lasciò che la barca scivolasse lentamente verso una forma più scura che le si stendeva davanti: poi lasciò girare il timone così che si trovarono a fiancheggiare la liscia superficie rocciosa dell’isola. Procedevano molto lentamente, quasi a naso, e stavano ad ascoltare il suono dei frangenti davanti a loro, fino a che, qualche minuto più tardi, la parete di roccia degradò e udirono il lieve sciacquio delle onde contro la spiaggia.

Fleming lasciò che la barca si incagliasse e trasportò la ragazza sulla sabbia, bagnandosi nell’acqua salata che gli arrivava al ginocchio. Vi era ora un luce precisa nel cielo, non certo l’alba, ma forse la luna, ed egli poté riconoscere la stretta insenatura sabbiosa che aveva scoperto con Judy quel pomeriggio, all’inizio della primavera, tanto tempo addietro, quando avevano trovato nella caverna le carte di Bridger. Fu un ricordo triste e al tempo stesso confortante: sentì, in modo irrazionale, che era arrivato a casa.

Si guardò attorno in cerca di un luogo dove riposare. Era troppo freddo per dormire all’aperto, anche se avessero potuto farlo, perciò si diresse all’entrata della caverna e percorse la galleria che aveva esplorato con Judy. Non poteva sostenere più André, ma procedeva lentamente, parlandole, volgendosi un poco per farle coraggio.

«Mi sembra di essere Orfeo,» disse tra sé. «Sto mescolando i miti. Ero Perseo poco fa.»

Si sentiva la testa leggera e vagamente stordita, per la fatica; sbagliò strada due volte nelle gallerie buie. Stava cercando l’ampia grotta dove avevano trovato la pozza d’acqua, poiché ricordava un fondo sabbioso dove avrebbero potuto riposare; ma dopo un po’ si accorse che aveva preso una strada sbagliata. Si volse, girando la torcia, per dirlo ad André, ma lei non c’era.

Con terrore improvviso rifece incespicando la strada già percorsa chiamandola e illuminando con la pila le volte della galleria. La sua voce gli tornava in un’eco derisoria e quello era l’unico suono oltre ai suoi passi sulle rocce. All’entrata della grotta si fermò e guardò ancora indietro. Era assurdo, si disse, perché non erano andati molto lontani. Per la prima volta provò un attimo di risentimento verso la ragazza; cosa veramente illogica, ma la logica per lui aveva sempre meno importanza. Mentre ripercorreva la galleria, notò che vi erano più diramazioni di quante ne ricordasse: pareva far parte dell’ossessivo mistero di quel luogo: le gallerie si moltiplicavano silenziosamente nel buio. Ne esplorò alcune ma dovette tornare sui propri passi perché tutti i passaggi, in un modo o nell’altro, diventavano impraticabili; e infine, improvvisamente, fu nell’alta grotta che non aveva trovato prima.

Si fermò e la chiamò ancora, facendo ondeggiare la torcia lentamente da una parete all’altra; senza possibilità di dubbio sentì che André doveva essere là: non sarebbe potuta andare molto più lontano stanca com’era nell’oscurità. Abbassò il raggio della torcia sul terreno sabbioso e vide le sue impronte. Le impronte lo portarono al centro della caverna e là si arrestò, bruscamente: un brivido di orrore gli corse dalla nuca per tutto il corpo. L’ultima impronta era sulla fanghiglia delle rocce sull’orlo della pozza e, a pelo dell’acqua, galleggiava uno dei suoi guanti. Null’altro.

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