Margaret Weis - Ambra e cenere

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La Guerra delle Anime si è finalmente conclusa. La lotta per la supremazia che gli dei hanno combattuto senza esclusione di colpi con le armi della magia ha lasciato il continente di Ansalon nella più completa desolazione e sovvertito i precedenti equilibri di potere. Mina, una misteriosa donna-guerriero, non si rassegna tuttavia alla propria sconfitta e stringe un patto con il diavolo. Mentre un culto satanico si diffonde e minaccia un mondo già fragile e provato, i nostri eroi, un eccentrico monaco e un kender in grado di comunicare con i defunti, si alleano per arginare le forze del maligno.

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«Io non sento niente», disse alla fine Chemosh, sembrando perplesso, «eppure la sensazione persiste. Forse è soltanto la mia fantasia. Vieni, troviamo quello che cerchiamo. Le rovine non sono lontane».

Camminava nell’acqua come camminasse sulla terraferma. Mina cercò di imitarlo, ma trovò difficile procedere. Finì per nuotare e camminare insieme, spingendosi in avanti con ampie bracciate e scalciando con le gambe. Quell’oscurità insondabile incominciò a farsi più chiara; lei e Chemosh stavano risalendo verso la superficie, verso la luce solare.

Chemosh si fermò di nuovo, con l’espressione cupa. Guardò Mina, guardò la veste di seta trasparente che indossava. «Non avrei mai dovuto permetterti di scendere qui sotto disarmata e senza armatura protettiva. Ti rimanderò indietro...»

«Non mandatemi via, mio signore. La mia armatura è la mia fede in voi. La mia arma è il mio amore per voi.»

Chemosh la trasse a sé. I capelli di Mina galleggiavano nell’acqua, spostandosi attorno alla testa e alle spalle con onde sensuali. Gli occhi d’ambra sembravano luminescenti, l’acqua rosso sangue conferiva loro una sfumatura arancione, per cui avevano un bagliore ardente.

«Non meraviglia che io abbia scelto te come somma sacerdotessa, Mina», osservò Chemosh. «Tuttavia ti darò qualcosa di più sostanzioso della fede per proteggere il tuo corpo di mortale, e un’arma maggiormente capace di arrecare danni.»

Si tuffò nel buio, precipitando fino sul fondo del mare. In pochi istanti ritornò, portando con sé uno scheletro umano.

«Non è molto carino, ma è pratico. Non farai la schizzinosa a indossare la gabbia toracica di un uomo, vero, Mina?»

«L’armatura datami Takhisis era lorda del sangue di un uomo che aveva osato canzonarla», rispose Mina. «Mi farete da scudiero, mio signore?»

«Solo per questa volta», rispose lui con un sorriso, e prese a fissarle al corpo quell’armatura ossuta. «Ti sta bene? Se no, posso trovare qualcos’altro di più adatto. Abbiamo una scorta illimitata di scheletri.»

«Mi sta perfettamente, mio signore.»

La sua corazza era costituita dallo sterno e dalle costole di un uomo. Le clavicole le proteggevano le spalle, le tibie le gambe, gli omeri le braccia. Chemosh saldò tutto assieme con la sua potenza, rinforzò le ossa con la sua energia. Quando l’ebbe vestita, guardò quell’equipaggiamento e ne rimase soddisfatto.

«E adesso l’elmo», disse Chemosh.

«Non un cranio, mio signore», protestò Mina. «Non voglio sembrare Krell.»

«Gli dèi ce ne scampino!» esclamò con sarcasmo Chemosh. «No, Mina. Ecco il tuo elmo.»

Le prese la testa fra le mani, la baciò sulla fronte, sulle guance, sul mento e infine sulla bocca.

«Ecco, sei protetta.» Esitò, continuando a tenerla. Strinse la presa su di lei. «Mina», le disse a bassa voce, «io...».

«Che cosa, mio signore?» domandò lei.

«Niente», disse lui bruscamente. Si allontanò da lei, dal suo contatto, dai suoi occhi d’ambra.

«Vi ho contrariato, mio signore?» chiese Mina, turbata.

«No», rispose lui, e ripeté: «No».

La guardò, guardò il suo corpo, caldo e cedevole e morbido, stretto nell’orribile armatura di ossa di uomo morto, e fu il Signore della Morte a rabbrividire.

Le strappò di dosso lo scheletro, lacerandolo e rigettandolo nel mare.

«Davvero non mi dava fastidio, mio signore», protestò Mina.

«Dava fastidio a me», disse lui e si girò bruscamente.

Procedettero alla deriva nelle profondità illuminate dal sole, alla ricerca delle rovine della Torre.

Quella potenza ignota che Chemosh percepiva lì sotto aumentava, non diminuiva, o per lo meno così giudicò Mina dall’espressione sempre più cupa di lui. Chemosh non le parlava. Non la guardava.

Mina cercò di rimanere concentrata, di stare all’erta in caso di pericolo. Lo trovava difficile, però. Si trovava in un mondo diverso, un mondo dalla bellezza strana ed esotica, ed era continuamente distratta. I pesci la superavano nuotando, le sfrecciavano attorno, alcuni la scrutavano curiosi, altri la ignoravano completamente. Banchi di coralli con sfumature rosa si innalzavano dal fondo del mare, ospitando una vera e propria foresta di piante dall’aspetto strano, ed esseri che sembravano piante ma non lo erano, come scoprì Mina quando toccò quello che le pareva un fiore e che la sferzò, pungendola. I colori di tutto, pesci e piante, erano più vividi, più luminosi e vibranti di qualunque colore lei avesse mai visto sulla terraferma.

Mina dimenticò il pericolo e si abbandonò a quell’incanto. Banchi di pesci argentei si muovevano a scatti e ruotavano su se stessi all’unisono come argento vivo. Pesci minuscoli guizzavano verso di lei, le mordicchiavano le dita. Altri si nascondevano alla vista, scomparendo dentro usci di corallo e tuffandosi in finestre di corallo.

All’improvviso Chemosh sibilò un avvertimento. Afferrando Mina, la trascinò fra le ombre di rami verdi e ondeggianti.

«Che cosa c’è?» domandò lei a bassa voce.

«Guarda! Guarda lì!» rispose lui, incredulo e furioso.

Dal fondo marino si innalzava un edificio dalle pareti di cristallo liscio e luccicante. Quella struttura cristallina catturava i raggi di luce solare immersi nell’acqua e li teneva prigionieri, cosicché l’edificio brillava di lastre tremolanti di luce acquosa. Sovrastava l’edificio una cupola di marmo nero. In cima alla cupola luccicava al sole un cerchietto di oro rosso lucidato e intessuto d’argento. Il centro del cerchietto era nerissimo, come se nel mare si fosse aperto un buco per rivelare il vuoto dell’universo.

«Che cos’è quel luogo, mio signore?» domandò Mina, in soggezione.

«La Torre dell’Alta Magia di Istar, dissacrata, bruciata, colpita da meteore, sventrata dal fuoco, disseminata di macerie», rispose Chemosh, soggiungendo con un’imprecazione: «In qualche modo è stata ricostruita».

8

Un attimo prima Rhys e Nightshade erano nella cella di Zeboim, a discutere pazientemente con la dea, cercando di farla ragionare. Un attimo dopo, nello spazio fra un respiro e l’altro, una parola e l’altra, uno strepito e l’altro, Rhys si trovò in piedi su una pietra da lastrico parzialmente sbriciolata, nel mezzo di un’isola-fortezza, con l’eco del mare infuriato che continuava a rombargli nella testa. Stancatasi della discussione, Zeboim vi aveva posto fine.

Rhys non era mai stato sul Bastione della Tempesta. Ne aveva udito delle storie, ma aveva prestato scarsa attenzione a quei racconti. Non era tipo da bramare l’avventura. Non si univa ai monaci più giovani, che si emozionavano nell’udire storie di fantasmi narrate attorno al fuoco nelle sere d’inverno. Il più delle volte abbandonava quel fuoco confortevole per andare a camminare da solo sulle colline gelate, godendosi la bellezza fredda e luccicante delle stelle ricoperte di brina.

I corpi di quei giovani monaci giacevano sottoterra. I loro spiriti, si sperava, vagavano liberi fra quelle stesse stelle. Lui era partito per risolvere il mistero della loro morte. Conoscendone il come, doveva ancora scoprirne il perché. La sua ricerca l’aveva condotto qui. Ripensando alla strada percorsa, non la vedeva interamente per via di tutte le curve e le deviazioni intraprese.

Se avesse obbedito a Majere e fosse rimasto al monastero a cercare la perfezione di corpo e mente, che cosa starebbe facendo adesso? Conosceva bene la risposta. Era l’ora del tramonto. Era quasi il momento di riportare le pecore giù dalle colline. Lui sarebbe stato seduto comodo nell’erba alta, cullando fra le braccia il bastone, con Atta distesa al suo fianco. La cagna sarebbe stata lì a osservare le pecore e a osservare lui, in attesa del comando che l’avrebbe spedita a sfiorare l’erba, correndo su per la collina.

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