«Ma guarda che cosa è diventato il Mare di Sangue.» La voce di Chemosh aveva una sfumatura di collera e disgusto. «Una fogna.»
Schermandosi gli occhi dal sole del mattino, Mina guardò verso il punto indicato da Chemosh, verso quella che era stata una delle meraviglie di Krynn, uno spettacolo tanto terrificante quanto magnifico.
Il Vortice aveva mantenuto vivo il ricordo e l’ammonimento di Istar. Adesso le acque un tempo famigerate del Mare di Sangue lambivano fiacche gli arenili disseminati di sporcizia e di rifiuti. Resti di casse da imballaggio sfondate e assi coperte di melma, reti in putrefazione, teste di pesci e bottiglie in frantumi, conchiglie schiacciate e alberi di nave scheggiati galleggiavano sull’acqua oleosa, dondolando pigramente avanti e indietro con il faticoso moto del mare. Soltanto i più anziani rammentavano il Vortice e ciò che vi era al di sotto: le rovine di una città, di un popolo, di un’epoca.
«L’Era dei Mortali», sogghignò Chemosh. Con la punta dello stivale scostò una medusa morta. «Ecco il loro lascito. La soggezione e la paura e il rispetto per gli dèi non esistono più, e che cosa rimane al loro posto? Rifiuti e avanzi di mortali.»
«Si potrebbe dire che gli dèi possano incolpare soltanto se stessi», osservò Mina.
«Forse dimentichi che stai parlando con uno di quegli dèi», ribatté Chemosh, con gli occhi scuri scintillanti.
«Chiedo scusa, mio signore», disse Mina. «Perdonatemi, ma qualche volta dimentico...» Si interruppe, incerta su dove avrebbe condotto quella frase.
«Dimentichi che io sono un dio?» domandò lui irosamente.
«Mio signore, perdonatemi...»
«Non scusarti, Mina», disse Chemosh. La brezza marina gli scompigliava i lunghi capelli scuri, soffiandoglieli via dal viso. Chemosh guardò verso il mare, vedendo ciò che vi era un tempo, vedendo ciò che vi era adesso. Sospirò profondamente. «È colpa mia. Io vengo a te da mortale. Io ti amo da mortale. Voglio che tu mi consideri un mortale. Questo mio aspetto è soltanto uno fra tanti. Gli altri non ti piacerebbero molto», soggiunse sarcasticamente.
Allungò la mano verso di lei e Mina la prese. Lui la attirò a sé, e rimasero stretti sulla riva del mare, col vento che mescolava i loro capelli, neri e rossi, ombra e fiamma.
«Hai detto la verità», ammise Chemosh. «La colpa è di noi dèi. Anche se non ci siamo impadroniti noi del mondo, abbiamo dato a Takhisis l’occasione di farlo. Tutti noi eravamo tanto assorti nella nostra piccola parte di creato che ci siamo chiusi nelle nostre bottegucce, seduti sui nostri sgabelli con i nostri piedini intrecciati attorno ai pioli, a scrutare la nostra opera come un sarto miope, lavorando d’ago su qualche pezzetto dell’universo. E quando un giorno ci siamo destati e abbiamo scoperto che la nostra Regina era fuggita col mondo, che cosa abbiamo fatto? Abbiamo forse afferrato le nostre spade fiammeggianti percorrendo i cieli e sparpagliando le stelle alla sua ricerca? No. Siamo corsi fuori dalle nostre bottegucce tutti sbalorditi e spaventati e ci siamo torti le mani e abbiamo gridato: "Ahinoi! Il mondo non c’è più. Che faremo mai?"»
La voce gli si indurì. «Ho pensato spesso che se il mio esercito si fosse schierato al di fuori delle porte del suo palazzo, con le mie truppe pronte ad assaltare le mura, la Regina Takhisis ci avrebbe pensato due volte. In realtà, sono stato pigro. Mi accontentavo di cavarmela con ciò che avevo. Tutto questo è cambiato. Io non ripeterò mai più lo stesso errore.»
«Vi ho fatto soffrire, mio signore», disse Mina, udendo il rimpianto e l’aspra amarezza nella voce di lui. «Mi dispiace. Questa doveva essere una giornata gioiosa. Una giornata per ricominciare.»
Chemosh prese la mano di Mina, se la portò alle labbra e le baciò le dita. A Mina batteva forte il cuore, aveva il respiro affannoso. Lui sapeva accendere in lei il desiderio con un tocco, con uno sguardo.
«Hai detto la verità, Mina. Nessun altro, nemmeno uno degli altri dèi, oserebbe dire una cosa simile a me. Ai più manca la capacità di capirlo. Tu sei tanto giovane, Mina. Non hai ancora ventun’anni. Dove trovi tanta saggezza? Non nella tua defunta Regina, credo», soggiunse sardonicamente Chemosh.
Mina ci rifletté sopra, guardando verso il mare, piatto ma non particolarmente calmo. L’acqua si agitava incessantemente, avanti e indietro, e le ricordava qualcuno che andasse su e giù all’infinito, nervosamente.
«L’ho vista negli occhi dei morenti», rispose. «Non quelli che adesso offrono la loro anima a te, mio signore. Quelli che una volta offrivano la loro anima a me.»
La battaglia del Canalone di Beckart. I cavalieri di Solamnia avevano fatto irruzione fuori da Sanction, avevano spezzato l’assedio di quella città a opera dei Cavalieri delle Tenebre di Takhisis, allora chiamati ignominiosamente Cavalieri di Neraka. I cavalieri e i soldati di Neraka si erano dati alla fuga quando i cavalieri di Solamnia si erano riversati fuori dalla fortezza. Mentre il comando di Neraka si sgretolava, Mina aveva preso in mano la situazione. Aveva ordinato alle sue truppe di uccidere coloro che scappavano, aveva ordinato di uccidere i compagni, gli amici, i fratelli. Ispirati dalla luce dell’ambra dorata luccicante, i soldati le avevano obbedito. I cadaveri si erano ammucchiati, ostruendo il passaggio. Qui l’assalto dei cavalieri di Solamnia si era bloccato, interrotto da una diga fatta di ossa spezzate e carne insanguinata. La battaglia era stata vinta da Mina. Aveva trasformato una disfatta in una vittoria. Aveva percorso il campo di battaglia, tenendo la mano a coloro che morivano a causa del suo comando, e aveva pregato per loro, offrendo le loro anime a Takhisis.
«Però le anime non andavano a Takhisis», sussurrò Mina al mare che l’aveva cullata da bambina. «Le anime venivano a me. Come fiori, io le coglievo e le radunavo nel mio cuore, tenendole strette, anche mentre pronunciavo il nome di lei.»
Si girò verso Chemosh. «Questa è la mia verità, mio signore. Non l’ho capita per molto tempo. Io gridavo "per la gloria di Takhisis" e pregavo lei ogni giorno e ogni notte. Ma quando le truppe cantilenavano il mio nome, quando urlavano "Mina, Mina", io non le correggevo. Io sorridevo.»
Rimase in silenzio a guardare le onde vagare senza meta verso riva, a guardarle depositare sporcizia ai suoi piedi.
«Ancora una volta l’umanità avrà timore degli dèi», sentenziò Chemosh, «o per lo meno di uno di loro. Laggiù», indicò sotto la sporcizia, i detriti, i rifiuti, «laggiù vi è l’inizio della mia ascesa a re del Pantheon. Ti racconterò una storia, Mina. Sotto il mare vi è un cimitero, il più grande del mondo, e questo è il racconto di coloro che sono sepolti sotto le onde...».
La mia storia ha inizio nell’Era dei Sogni, quando un mago potente di nome Kharro il Rosso stabilì che gli Ordini della Magia avessero bisogno di rifugi sicuri in cui i maghi potessero incontrarsi, studiare assieme, operare assieme. Avevano bisogno di luoghi in cui conservare al sicuro libri di incantesimi e oggetti magici. Propose ai maghi di costruire le Torri dell’Alta Magia, roccaforti della magia.
Kharro inviò maghi in tutto Ansalon per individuare i luoghi in cui costruire queste nuove torri. Le Vesti Bianche, sotto la guida di una maga di nome Asanta, scelsero come loro sede un povero villaggio di pescatori chiamato Istar.
Le Vesti Nere e le Rosse scelsero città grandi e prospere in cui costruire le torri. Kharro convocò Asanta a Wayreth e chiese di conoscere il motivo della sua scelta. Asanta era una veggente. Vedeva il futuro di Istar e predisse che un giorno la sua gloria avrebbe eclissato tutte le altre città di Ansalon. Alle Vesti Bianche fu concesso il permesso di iniziare la costruzione della torre, e quarant’anni dopo Asanta guidò l’incantesimo che istituì la Torre dell’Alta Magia di Istar.
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