Margaret Weis - Ambra e cenere

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La Guerra delle Anime si è finalmente conclusa. La lotta per la supremazia che gli dei hanno combattuto senza esclusione di colpi con le armi della magia ha lasciato il continente di Ansalon nella più completa desolazione e sovvertito i precedenti equilibri di potere. Mina, una misteriosa donna-guerriero, non si rassegna tuttavia alla propria sconfitta e stringe un patto con il diavolo. Mentre un culto satanico si diffonde e minaccia un mondo già fragile e provato, i nostri eroi, un eccentrico monaco e un kender in grado di comunicare con i defunti, si alleano per arginare le forze del maligno.

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La scena era pacifica, ma lui no. Il suo spirito era turbato, infestato da dubbi e tumulti interiori. Non era più libero di vagare tra le stelle di notte. Sarebbe andato ogni sera a far visita alla fossa comune e avrebbe pensato, guardando la nuova erba che incominciava a ricoprirla, di avere tradito i suoi confratelli, tradito i suoi familiari, tradito l’umanità. Rhys guardò quello che sarebbe potuto essere e l’immagine si dissolse. Se fosse morto in questo luogo orribile, come sembrava più che probabile, il suo spirito avrebbe proseguito verso la fase successiva del suo viaggio, soddisfatto di sapere che lui aveva agito bene, anche se tutto era poi finito male.

Un tramonto sgargiante inondava il cielo di colori rosso e oro e porpora, chiazzando di colori splendenti le mura grigie del Bastione della Tempesta. Il primo pensiero incongruo di Rhys fu che la fortezza aveva un nome sbagliato. Sul Bastione della Tempesta non infuriavano tempeste. Il cielo era limpido, a parte l’unico sbuffo solitario di una nube bianca che corse via rapidamente, timorosa di essere catturata. Non si agitava nessuna brezza sulla terra o sull’acqua. Il mare sciabordava cupo contro i dirupi. Piccole onde lambivano il fondo delle rocce frastagliate, blandendole, accarezzandole.

Rhys studiò l’ambiente circostante, esaminandolo a lungo e attentamente: le formidabili torri che si protendevano in alto verso il cielo abbagliante, la piazza d’armi su cui lui si trovava, i vari edifici annessi sparpagliati fra le rocce. E al di là e tutto attorno a lui il mare, che osservava avidamente ogni suo movimento.

Ogni suo movimento. Suo e soltanto suo. Il kender non si vedeva da nessuna parte. Rhys sospirò e scrollò il capo. Aveva cercato di spiegare a Zeboim che la presenza del kender era essenziale per il suo piano. Aveva ritenuto di averla convinta; di questo, per lo meno, se non di altro. Forse il kender era ruzzolato fuori dall’etere cadendo su una diversa parte dell’isola. Forse...

«Nightshade?» chiamò a bassa voce Rhys.

Rispose uno squittio indignato. Lo squittio proveniva dalla bisaccia di cuoio appesa alla cintura di Rhys, e dopo un attimo di stupore Rhys emise un sospiro di sollievo. Zeboim aveva attuato il piano di Rhys con la sua consueta impetuosità, solo che non si era presa la briga di dirglielo.

«Rhys!» piagnucolò Nightshade, con la voce soffocata dalla bisaccia in cui era celato, «che è successo? Dove sono? È buio pesto qui dentro e puzza di formaggio di capra!».

«Stai zitto, amico mio», ordinò Rhys e mise la mano con fare rassicurante sopra la bisaccia.

La bisaccia obbediente si zittì, anche se Rhys se la sentiva fremere contro la coscia. Diede al kender una pacca tranquillizzante.

«Sei dentro la mia bisaccia. Io e la bisaccia siamo sul Bastione della Tempesta.»

La bisaccia ebbe un sobbalzo.

«Nightshade», disse Rhys, «devi restare perfettamente immobile. Ne va della nostra vita».

«Scusa, Rhys», squittì il kender. «Sono un po’ sorpreso, ecco tutto. È stato tutto così improvviso!» L’ultima parola era uno strillo.

«Lo so», rispose Rhys, sforzandosi di mantenere calmo il proprio tono. «Nemmeno io mi aspettavo di compiere questo viaggio. Ma adesso siamo qui e dobbiamo andare avanti col nostro piano come abbiamo discusso. Tu puoi farcela?»

«Sì, Rhys. Per un attimo ho perso il controllo. È un po’ un brutto colpo, sai, trovarti alto cinque centimetri e infilato in una sacca che puzza di formaggio di capra e poi scoprire che sei venuto a far visita a un cavaliere della morte.» Nightshade sembrava amareggiato.

«Capisco», disse Rhys, contento che il kender non potesse vedere il suo sorriso.

«Adesso però ho superato tutto questo», soggiunse Nightshade dopo una pausa per riprendere fiato. «Puoi contare su di me.»

«Bene.» Rhys si guardò di nuovo attorno. «Non ho idea di dove siamo né dove dovremmo andare. Zeboim ci ha mandati via prima che potessi chiederglielo.»

Le torri della massiccia fortezza si innalzavano sui dirupi. Tutti gli edifici sembravano essere stati scolpiti sull’isola come uno scultore ricava la sua opera da un blocco di marmo, lasciando la base sgrossata, la sommità liscia e conformata e lavorata con destrezza. Rhys aveva la strana sensazione di trovarsi sul punto più elevato di una scheggia di terra frastagliata, col resto del mondo a digradare tutto attorno a lui. Sulla sua collina si era spesso sentito in comunione con un universo benevolo. Qui si sentiva solo, isolato e abbandonato, in un universo a cui non importava un fico secco.

Le pietre da lastrico della piazza d’armi irradiavano nell’aria il calore del sole pomeridiano. Il sudore gocciolava sul collo e sul petto di Rhys. Il kender, pensò Rhys, probabilmente stava soffocando. Rhys aprì leggermente la bisaccia per lasciare entrare più aria.

«Stai zitto», ripeté. «E stai fermo.»

A un’estremità dell’isola si trovavano due torri enormi che dovevano essere gli edifici principali della fortezza. Rhys avrebbe dovuto attraversare tutta la piazza d’armi per raggiungerle. Alzando lo sguardo sulla miriade di finestre su quelle alte torri, Rhys si rese conto che il cavaliere della morte, Ausric Krell, poteva essere lì a osservarlo.

Ripensò alla conversazione che si era tenuta nella cella della prigione qualche istante prima che lui partisse tanto inaspettatamente per questo viaggio.

Maestà, io e Nightshade abbiamo bisogno del vostro aiuto se dobbiamo sopravvivere a questo incontro col cavaliere della morte. Mi avevate promesso di conferirmi la vostra potenza sacra...

Ho cambiato idea, monaco. Ci ho riflettuto. Ciò che tu chiedi è troppo pericoloso per mio figlio. Se tu fallisci, Ariakan sarà ancora nelle mani di Chemosh. Se lui anche solo sospetta che io ti abbia aiutato, si vendicherà sul mio povero figlio.

Signora, senza il vostro aiuto, noi non possiamo procedere...

Bah! Il tuo piano è buono, che più buono non si può, date le circostanze. Potresti riuscirci. Se ci riesci, non hai nulla di cui preoccuparti. Se non ci riesci, la morte per te non avrà importanza. Per via del tuo sacrificio, ti sarà garantita una vita pacifica dopo la morte. Majere difficilmente potrà negartela, mentre il mio povero figlio...

Maestà...

Fu allora che Zeboim pose fine alla discussione.

Adesso lui si trovava sul Bastione della Tempesta, costretto ad affrontare un cavaliere della morte avendo come arma soltanto il suo bastone e per compagno un kender in miniatura, senza alcun dio a fornirgli aiuto. Guardando lontano verso le onde cupe e il cielo limpido che si oscurava, Rhys strinse il bastone, che era stato un ultimo mesto dono di Majere, e recitò una preghiera. Non sapeva chi stesse pregando, forse nessuno: forse il mare, forse il cielo infinito. Non chiese incantesimi, né magia sacra, né poteri divini. Inutile chiedere. Non avrebbe risposto nessuno.

«Datemi forza», pregò, e con questo si incamminò verso la fortezza per cercare il cavaliere della morte.

Aveva compiuto appena qualche passo quando un’ombra discese su di lui da dietro. L’ombra era fredda come la disperazione, tenebrosa come la paura. Rhys udiva alle proprie spalle il cigolio del cuoio e lo sferragliare dell’armatura e il rumore del respiro, che non era il rumore di un respiro vivente ma il suono sibilante e stridulo di un morto vivente che cerca di rammentare come si faccia a respirare. Il fetore della putrefazione, della morte, gli riempì il naso e la bocca. Tra il fetore e l’orrore, Rhys era tanto disgustato che per un attimo temette di perdere i sensi.

Rhys strinse forte il bastone. Il suo io spirituale ingaggiò una battaglia. La paura era l’arma più potente del cavaliere della morte. Rhys doveva sconfiggere la paura oppure crollare sul posto. Il suo spirito combatté la paura, l’anima cercò di vincere la debolezza intrinseca della carne. La lotta fu breve, intensa. Rhys si era addestrato a questo in tutti i suoi giorni trascorsi al monastero. Non poteva invocare Majere in suo aiuto, ma poteva invocare gli insegnamenti di Majere. Lo spirito vinse. L’anima trionfò. La sensazione di disgusto passò. Il formicolio ardente negli arti si attenuò, anche se la mano che stringeva il bastone gli si era intorpidita.

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