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Эд Гринвуд: Elminster: il viaggio

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Эд Гринвуд Elminster: il viaggio

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Era il tempo in cui il magnifico regno elfo di Cormanthor era dominato dai barbari, draghi malefici governavano i cieli e gli abitanti non nutrivano più fiducia in nessuno. Maghi e guerrieri minacciavano i regni poiché mossi dalla loro arrogante e rozza ignoranza anelavano alla gloria. Accadde in quel tempo che, dopo un interminabile viaggio, Elminster giungesse a Cormanthor, alle Torri del Canto, regno di Eltargrim. In quel luogo Elminster visse per più di dodici estati, dedicandosi allo studio della magia, imparando, grazie all'aiuto di una congrega di maghi sapienti, ad avvertire dentro di sé la forza della magia e a farvi ricorso per dominare il male...

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Al che si strinse nelle spalle e proseguì in direzione delle favolose Torri del Canto. Gli elfi non consentivano a nessun uomo di vedere la loro grande città e rimanere in vita, ma una dea aveva ordinato a El di recarvisi, come prima missione al suo servizio. Se gli elfi avessero tenuto troppo alla loro intimità e non avessero approvato la sua presenza, tanto peggio per lui.

E peggio per lui se la sua vigilanza o i suoi incantesimi gli fossero venuti meno. Già una volta, all’imbrunire, aveva visto uno lampo di luce blu alla sua sinistra, e un orso-gufo era caduto nella trappola di un incantesimo. Il giovane sperò che tali magie avessero scopi specifici e non colpissero esseri umani che usavano incantesimi per tenersi sollevati dal suolo.

Un fatto divenne sempre più chiaro nella sua mente: persino elfi desiderosi di mostrarsi amici, se mai a Cormanthor ve ne fossero, non avrebbero accolto affabilmente un intruso umano che portasse con sé uno scettro sottratto a una tomba elfa.

L’attenzione che aveva attirato su di sé al Corno era stata uno sbaglio, al di là del potenziale pericolo rappresentato dall’ignoranza del cercatore in materia di magia. Aveva perduto una notte di sonno, e aveva dovuto utilizzare frettolosamente alcuni incantesimi per svignarsela quando almeno quattro uomini armati di sortilegi e pugnali erano probabilmente penetrati nella sua camera da letto. L’ultimo era giunto strisciando dal tetto, la spada in pugno, proprio nel punto in cui El ascoltava i versi di altri due individui intenti ad accoltellarsi nell’oscurità sottostante.

Ora possedeva un magnifico oggetto d’argento cesellato, tempestato di gemme, e senza dubbio molto riconoscibile, i cui poteri avrebbero potuto essere rivolti contro di lui dall’elfo che l’avesse visto: uno scettro probabilmente maledetto o capace di incantesimi potenti contro chiunque li avesse evocati. Uno scettro appartenuto a un elfo, i cui parenti sopravvissuti avrebbero potuto uccidere qualsiasi essere umano avesse osato toccarlo. Uno scettro che qualcuno avrebbe potuto rintracciare persino in quel momento.

Come poteva essere stato tanto stupido ? El sospirò nuovamente. Durante il viaggio avrebbe dovuto nasconderlo in un luogo noto solo a lui, al riparo dal misterioso inseguitore o da guardie elfe. Era necessario trovare un punto di riferimento in quel bosco infinito, che non fosse però un albero. Decise così di guardarsi attorno in cerca di un luogo adatto.

Poco dopo il sorgere del sole, superate le acque scure della dodicesima palude, Elminster trovò ciò che cercava. Il terreno saliva bruscamente formando una serie di picchi appuntiti, l’ultimo dei quali era una guglia di roccia nuda, somigliante alla prua di una gigantesca nave desiderosa di salpare verso il sole.

Il giovane scelse il picco accanto alla prua. Era un’altura modesta, circondata da alberi; uno in particolare, che sembrava appeso alla roccia, lo colpì. Poteva essere il luogo giusto. El si inginocchiò fra le sue radici, raccolse un pugno di terra e la setacciò fra le dita fino ad avere in mano solo poche pietre.

Estrasse lo scettro d’argento dalla sacca, lo guardò brevemente e lo posò sul palmo in mezzo alle pietre. Era un’opera magnifica e, come già aveva osservato, una delle estremità terminava con una lingua di fuoco. Elminster scosse la testa ammirato e praticò un sortilegio. Poi depose lo scettro nel buco che aveva scavato, lo ricoprì di terra e staccò un cuscino di muschio da porre sopra la terra smossa. Una manciata di foglie e ramoscelli servì a completare il nascondiglio; quindi il giovane si affrettò verso il picco seguente. In quel punto lasciò cadere una delle pietre, poi ripeté l’azione sui tre rilievi alberati seguenti. Fermandosi presso l’ultimo, mormorò un altro incantesimo che lo affaticò e lo fece star male; le sue membra formicolarono, avvolte da un fuoco blu-bianco per il tempo di un lungo, lento respiro.

Prese fiato, una, due volte, prima di sentirsi abbastanza forte da effettuare un secondo incantesimo. Era questione di pochi gesti, di una singola frase e di staccare un capello da dietro l’orecchio. Ben presto ebbe terminato il rituale.

El rimase immobile per un momento, in ascolto, e scrutò la strada dalla quale era venuto, in cerca di movimenti sospetti, ma i suoi sensi percepirono solo le fughe precipitose delle piccole creature boschive. Dopodiché si voltò e proseguì il viaggio: non aveva nessuna voglia di attendere ore per scoprire chi lo stesse seguendo.

Mystra lo aveva mandato in missione a Cormanthor: non gli aveva ancora rivelato che cosa avrebbe dovuto fare in quel luogo, ma qualcuno avrebbe avuto bisogno di lui, così aveva detto, «fra qualche tempo». Non sembrava una cosa urgente, eppure El desiderava vedere la leggendaria città elfa. Era il luogo più straordinario di tutta Faerûn, affermavano i menestrelli, pieno di meraviglie e di elfi tanto belli da togliere il fiato. Un luogo di feste, di prodigi e di canti, dove palazzi fantastici svettavano con le loro guglie fino alle stelle, e città e foresta si fondevano in un vasto giardino ondulato. Un luogo dove sparavano a vista su chi non era elfo.

Esisteva un verso di un’antica ballata sui briganti stupidi, divenuto poi un detto ironico tra gli abitanti di Athalantar: «Non dobbiamo far altro che bruciare quel tesoro quando ci metteremo le mani sopra». Gli sarebbe servito nei giorni a venire. El sospettava di dover trascorrere molto tempo aggirandosi per Cormanthor sotto forma di nebbia dotata di occhi e orecchie.

Meglio che consumarsi nell’oblio eterno della morte per incantesimi, pensò, o sprofondare dimenticato nella terra di un giardino elfo, lasciando a metà la missione affidatagli da Mystra.

Elminster si fermò alla base di un albero grande quanto una capanna, spostò la bisaccia da una spalla all’altra, si stirò come un gatto, dopodiché s’incamminò con passo rapido a sudest. Gli stivali non emettevano alcun rumore, dal momento che avanzava sull’aria. Mentre camminava osservò le acque placide di un piccolo stagno, che riflessero l’immagine di un giovane dalla barba incolta e dai penetranti occhi blu, con un groviglio di capelli neri, un naso adunco e una corporatura slanciata. Non brutto, ma all’apparenza neanche particolarmente affidabile. Un giorno, comunque, avrebbe fatto colpo su qualche elfo…

Se avesse guardato indietro al momento giusto, Elminster avrebbe visto una massa di funghi abbarbicati sollevarsi dal terreno paludoso della foresta, disturbati da un’entità invisibile, e riabbassarsi dolcemente quando questa sussurrò un’imprecazione e si scansò frettolosamente. Il giovane aveva forse intenzione di addentrarsi dritto nel cuore custodito di Cormanthor?

Poi le tenebre della foresta vennero improvvisamente illuminate da anelli di fuoco, e il terreno prese a tremare. Sembrava proprio di sì.

Elminster avanzò correndo sull’aria, facendo oscillare la bisaccia che teneva in mano, avanti e indietro, per darsi la spinta. Si era trattato di un incantesimo di guerra, sferrato frettolosamente.

Le foglie arsero per qualche istante sui rami all’orizzonte, e un albero cadde da qualche parte in direzione ovest, in risposta all’onda d’urto causata dall’esplosione.

Elminster aggirò un lungo ramo e salì su un’altura, per poi discendere in una conca rocciosa ammantata di felci, dove una sorgente affiorava fra antichi massi, uno dei quali era appena ripiombato a terra, trascinando con sé fiamme e le ossa roteanti di una creatura smembrata.

Alcune figure si stavano affrettando a nascondersi dietro di essi. Elfi, osservò El, che stavano combattendo contro corpulenti guerrieri dalla pelle rossa, dalla cui bocca spuntavano zanne, e la cui armatura di pelle nera era piena di pugnali, asce e mazze.

Gli hobgoblin avevano sorpreso gli elfi al torrente e li avevano uccisi quasi tutti. Mentre El si avvicinava correndo sopra le felci che ondeggiavano nella sua scia, una spada elfa si illuminò di luce magica, si sollevò e colpì. La sua preda cadde a terra, ringhiando di dolore, le mani intorno al collo squarciato, ma una spranga di ferro brandita da un altro hobgoblin piombò sulla testa dello spadaccino con un forte tonfo, che riecheggiò nella conca con un rumore nauseante.

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