George Martin - Il regno dei lupi

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Il regno dei lupi: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel terzo capitolo della saga delle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” una rossa cometa apparsa nel cielo dei Sette Regni sembra annunciare tremende sciagure. La lunga estate dell'abbondanza sta per finire, mentre quattro pretendenti, in aperta guerra gli uni contro gli altri, si contendono il Trono di Spade.

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Negli ultimi tempi, li sognava spesso, i lupi. “Mi stanno parlando, da fratello a fratello” questo diceva fra sé udendo il loro ululato. Poteva quasi capirli… non proprio del tutto, ma quasi. Come se stessero comunicando in un linguaggio che un tempo lui aveva conosciuto ma che ora aveva dimenticato. I giovani Walder avevano paura di loro, ma nelle vene degli Stark scorreva sangue di lupo. “E in alcuni” lo aveva avvertito la vecchia Nan “è più forte che in altri.”

Gli ululati di Estate erano prolungati e tristi, pieni di sofferenza, pieni della memoria di cose perdute. Quelli di Cagnaccio erano più ferali. Le loro voci rimbalzavano nei cortili e negli androni del maniero, e risuonavano in tutto il castello, come se un intero branco di famelici meta-lupi avesse invaso Grande Inverno. Ma i meta-lupi rimasti erano solamente due dei sei che erano stati un tempo. “Anche a loro mancano i loro fratelli e le loro sorelle?” si domandava Bran. “Li chiamano? Chiamano Vento grigio e Spettro? Chiamano Nymeria e lo spirito di Lady? Vogliono che tornino a casa, in modo da essere nuovamente un branco?”

«Chi può sapere quello che passa per la mente di un lupo?» aveva replicato ser Rodrik Cassel quando Bran gli aveva chiesto perché ululassero. Lady Catelyn, madre di Bran, lo aveva nominato castellano di Grande Inverno in sua assenza e quei doveri lasciavano a ser Rodrik ben poco tempo per rispondere a domande oziose.

«È la libertà che invocano» aveva sostenuto Farlen, il mastro dei canili, il quale non aveva verso i meta-lupi più affetto di quanto ne avessero i suoi mastini. «A loro non piace stare rinchiusi entro una cinta di mura, e chi può dare loro torto? Le creature selvagge appartengono alla natura selvaggia, non a un castello.»

«Vogliono cacciare» aveva concordato Gage, il cuoco, mentre gettava cubetti di prosciutto nella grande pentola dello stufato. «L’olfatto di un lupo è migliore di quello di qualsiasi uomo. Da come la vedo io, hanno fiutato l’odore di una preda.»

Maestro Luwin, però, non la pensava a quel modo. «Spesso i lupi ululano alla luna. Questi invece ululano alla cometa. Vedi quanto è luminosa, Bran? Forse credono che la cometa sia la luna.»

Quando però Bran aveva ripetuto quella frase a Osha, lei aveva riso forte. «I tuoi lupi sanno molte più cose del tuo maestro» aveva risposto la donna che era stata tra i bruti. «I lupi conoscono verità che il vecchio ha dimenticato.» Il modo in cui aveva pronunciato quelle parole aveva fatto correre brividi gelidi lungo la schiena di Bran, e quando lui aveva domandato quale fosse il significato della cometa, la risposta di Osha era stata: «Sangue e fuoco, piccolo mio. Niente di bello».

Bran aveva chiesto della cometa anche a septon Chayle mentre entrambi stavano occupandosi di alcune antiche pergamene salvate a stento dall’incendio della biblioteca del castello. «È la spada che taglia le stagioni» aveva ribattuto lui e, poco dopo, dalla Cittadella di Vecchia Città era giunto il corvo bianco che portava l’annuncio dell’autunno. Per cui, senza dubbio doveva essere Chayle ad aver ragione.

Ma la vecchia Nan non era dello stesso avviso, e lei aveva vissuto più a lungo di tutti quanti loro. «Draghi» aveva risposto, sollevando il capo a annusando l’aria. Era pressoché cieca, la vecchia Nan, quindi non era in grado di vedere la cometa, eppure sosteneva di poterne fiutare l’odore. «Questi sono draghi, ragazzo» aveva insistito. Nan non lo chiamava mai “principe”, non l’aveva mai fatto.

La sola cosa che Hodor aveva detto era stata: «Hodor». Ma in fondo, era anche l’unica parola che sapesse dire.

Eppure, i meta-lupi continuavano a ululare. Le guardie sulle mura imprecavano a denti stretti, i mastini nei canili abbaiavano furiosamente, i cavalli tiravano calci all’interno dei loro stabbioli, i due giovani Walder rabbrividivano davanti al focolare e perfino maestro Luwin si lamentava per le notti insonni. Bran era l’unico a essere tranquillo. Dopo che Cagnaccio aveva morso Piccolo Walder, ser Rodrik aveva confinato i meta-lupi nel parco degli dei, ma le pietre di Grande Inverno giocavano strani scherzi con i suoni e a volte pareva che le due belve stessero ululando nel cortile appena sotto la finestra di Bran. Altre volte, lui avrebbe scommesso che erano saliti sulle mura, muovendosi lungo i camminamenti come sentinelle. La sola cosa che desiderava era riuscire a vederli.

Riusciva però a vedere la cometa, incombente al di sopra del corpo di guardia e della Torre della campana, che si stendeva fin sopra la forma tozza e rotondeggiante della Prima Fortezza, le sagome dei doccioni che si stagliavano nere contro il crepuscolo violetto. Un tempo, Bran conosceva ogni singola pietra di quegli edifici, dentro e fuori. Li aveva scalati tutti, arrampicandosi lungo muri verticali con la medesima facilità con cui altri ragazzi correvano giù per le scale. I tetti erano stati i suoi nascondigli segreti, e i corvi sulla cima della torre spezzata i suoi migliori amici.

Ma poi lui era precipitato.

Bran non ricordava di essere caduto, ma tutti dicevano che era successo, così lui supponeva che fosse vero. Era stato a un passo dalla morte. Nell’osservare i doccioni corrosi dalle intemperie sulla sommità della Prima Fortezza, là dove dicevano che lui era finito nel vuoto, Bran sentiva uno strano vuoto nel ventre. Adesso non poteva più scalare niente, non poteva più nemmeno camminare, né correre, né tirare di spada. Tutti i suoi sogni di diventare cavaliere erano diventati nient’altro che ricordi amari.

Estate, il suo meta-lupo, aveva ululato il giorno in cui lui era caduto, e aveva continuato a ululare per tutto il tempo in cui il suo piccolo corpo spezzato era rimasto a giacere nel letto. Glielo aveva confidato suo fratello Robb prima di partire per la guerra. Estate era stato triste per lui, Cagnaccio e Vento grigio avevano condivìso quella sofferenza. E la notte in cui il corvo insanguinato aveva recato la notizia della morte di Eddard Stark, loro padre, i meta-lupi avevano capito anche quello. Bran si trovava nella torretta di maestro Luwin insieme a Rickon e stavano ascoltando la storia dei Figli della foresta quando le parole di Luwin erano state sopraffatte dagli ululati di Estate e di Cagnaccio.

“Ma adesso, per chi si lamentano?” Che un nemico avesse ucciso suo fratello Robb, il re del Nord? Che Jon Snow, suo fratello bastardo, fosse caduto dalla Barriera? Che sua madre fosse morta, o una delle sue sorelle? O forse si trattava di qualcosa d’altro, come il maestro e il septon e la vecchia Nan sembravano credere?

“Se io fossi veramente un meta-lupo” pensò “sarei in grado di capire il loro canto.” Nei suoi sogni di lupo, era in grado correre su per le pendici delle montagne — aspre montagne ricoperte dai ghiacci e più alte della più alta delle torri — e rimanere su quelle cime impervie al cospetto della luna piena, con l’intero mondo sotto di lui, proprio com’era stato un tempo.

«Uuuu» gridò Bran con poca convinzione. Poi si portò le mani attorno alla bocca e sollevò il viso verso la cometa rossa. «Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu, ahuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu» ululò. Fu un suono stupido quello che gli venne fuori, un suono troppo alto, troppo vuoto e troppo tremante. L’ululato di un bambino, non di un lupo. Eppure Estate gli rispose, e la voce profonda della belva soverchiò quella infantile di Bran. Cagnaccio si unì al coro. Bran ululò di nuovo: “Haruuuuuuuu”. Tutti e tre ulularono insieme, ultimi rimasti del loro branco.

Tutto quel gridare fece accorrere alla sua porta una delle guardie, Testa di fieno, quello con la verruca sul naso. Diede un’occhiata nella camera da letto e vide Bran che ululava, appollaiato sul davanzale della finestra.

«Che cos’è questo grido, mio principe?»

A Bran continuava a fare effetto quando lo chiamavano “principe”, anche se di fatto era l’erede di Robb, il quale era il re del Nord. Voltò la testa e ululò alla guardia: «Uuuuuuuuu. Uu-uu-uuuuuuuuuuuuuuu».

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