«Ti avevo visto sbucare da una porticina nascosta, quella dietro la grande urna panciuta.»
«Vai proprio in giro dappertutto», si stupì ancora lui.
«Be’, quel giorno sono andata dove non avrei dovuto. Domina Pearl mi chiuse in trappola nella sua biblioteca, senza sapere che ero lì. A trovarmi fu Camas Erl. Mi lasciò libera, ma mi fece delle domande, e dovetti promettergli che lo avrei portato da Faey.»
«Dunque è stato così», mormorò Ducon. «Ma perché?»
«Lui ha certe idee… lui pensa…» Mag scosse il capo, perplessa. Un’altra porta si aprì e si richiuse. Lui la condusse più lontano dalla luce della candela. «È un uomo capace di tutto per raggiungere i suoi scopi, anche se non hanno molto senso. Non ti converrebbe lasciarlo dov’è? Finché quello vaga tra gli spettri, tu sei più al sicuro.»
Ducon scosse il capo. «Per il momento», disse, accigliato, «devo fare quello che mi è stato chiesto.» La prese per un braccio, senza badare allo sguardo perplesso di una giovane serva di passaggio. «Ma voglio che tu mi aspetti.»
«Dove?»
Ducon la condusse oltre l’angolo e poi lungo il corridoio. «Tornerò al più presto. Poi vedremo cosa verrà fuori dal tuo carbone.»
Il giovane aprì una delle tante porte identiche del seminterrato. Una ragazza in sottoveste, china su un catino, alzò il volto gocciolante, sorpresa dal loro ingresso.
«Questa è la maestra Spina», la presentò lui. «Rosa, la lascio con te. Non andartene da questa stanza prima del mio ritorno.»
Mentre il giovane chiudeva la porta, la ragazza si sciacquò in fretta il sapone e sorrise.
«Mag!»
Mentre s’infilava rapidamente l’abito semplice, Lydea raccontò all’amica come mai si trovava lì, mascherata da un incantesimo e sotto lo stesso tetto della Perla Nera. Mag la guardò più da vicino, ma non riuscì a vedere traccia del bel viso triste della ragazza che una notte le aveva tirato addosso le sue scarpe costellate di zaffiri. Faey aveva fatto molto bene il suo lavoro.
La serva che distribuiva la colazione bussò alla porta; Lydea condivise il cibo con Mag. Si passarono l’una con l’altra la tazza del tè, mentre Mag le mostrava il medaglione e spiegava perché era venuta a cercare Ducon.
Non appena finito di mangiare, Lydea si alzò. «Devo andare. Sarò sola con Kyel, fino al ritorno di Ducon. Tu conosci una lingua straniera?»
Mag annuì, sorpresa. «Un ex contrabbandiere me ne ha insegnato un paio.»
«E l’aritmetica?»
«L’ho imparata dalla moglie di un fornaio.»
«E la storia?»
Mag storse la bocca. «Ci vivo dentro. Perché?»
Lydea la studiò un poco, passandosi una mano tra i capelli. «Mi chiedo…» Riabbassò la mano. «No, non riuscirei mai a spiegare la tua presenza a Domina Pearl. Ma vorrei che tu m’insegnassi a fare lezione a Kyel. Io so così poche cose!»
«Ne sai sempre più di lui, suppongo.» Mag guardò la maestra Spina che si allacciava un polsino e s’infilava una spilla sui capelli. «Sembri davvero… hai proprio l’aria di una…»
«Lo so. Me l’ha detto anche Ducon. Vorrei sentirmi come sembro a chi mi guarda.» Si voltò verso Mag e la prese per le spalle, fissandola negli occhi. «So che ti piace andare in giro, ma non farlo. È troppo rischioso. Ducon potrebbe tornare prima di me. Fino ad allora, qui accanto al letto ci sono molti libri di storia.»
La ragazza uscì. Mag sedette sul letto e guardò il muro liscio e uniforme, con occhi vuoti.
I corridoi erano di nuovo silenziosi. Domina Pearl, a quanto aveva detto Lydea, sarebbe stata occupata in camera di consiglio per tutta la mattina. Ducon avrebbe potuto restare assente fino al mezzodì, oppure tutto il giorno. Poco prima di scontrarsi con Ducon, Mag aveva oltrepassato la grande urna dietro cui c’era la piccola porta nascosta. Se avesse voluto aggirarsi per un’oretta nei passaggi segreti, nessuno se ne sarebbe accorto. A casa di Faey aveva visto i disegni lasciati lì dal giovane; essi accennavano all’esistenza di un mistero nelle stanze abbandonate le cui porte si aprivano sull’ombra. Un mistero che aveva pervaso il suo carboncino da disegno e si era trasferito sulla carta. Quell’oggetto fatto di cenere e sputo era una cosa viva, un occhio cieco che vedeva invisibili meraviglie e le rifletteva sulla carta. Erano meraviglie che Ducon aveva intuito, sfiorato, ma che poteva spiegare soltanto disegnando tutto sotto forma di luci e ombre. Come se pensasse che, mettendole su carta, avrebbe strappato il velo di tenebra che le copriva e illuminato il mistero dietro di esso.
Ma… Uomo avvisato, mezzo salvato , pensò Mag. E lei era stata avvisata tre volte, da Faey, da Ducon e da Lydea. Così, nonostante i suoi istinti, inquieti, rimase dov’era. Ispirata dal pensiero del carboncino, rovistò tra i libri ammucchiati ai piedi del letto di Lydea, non alla ricerca d’interessanti fatti storici bensì di una pagina bianca. Ne trovò una in fondo a un libro, poi si tirò fuori dalla scollatura il medaglione. Far uscire il cilindretto di carbone dal suo scomparto fu facile; il piccolo oggetto le cadde in mano non appena rovesciò il medaglione. Lei se lo rigirò tra le dita, con attenzione. Era lungo quanto una falange del suo pollice e non più spesso di un ferro da calza. A differenza di quello di Ducon, non emanava bagliori colorati. Ma l’attendeva una sorpresa: le prime linee che tracciò sembrarono prodotte non dalla sua mente, ma da una forza sconosciuta che piegava i muscoli del suo braccio.
Si fermò e studiò quei pochi segni. Inesperta com’era, avrebbe potuto disegnare un volto di semplicità puerile: un ovale, due occhi tondeggianti, la curva di una bocca sorridente. Ma ciò che il carboncino l’aveva costretta a fare non poteva essere scambiato per un volto umano neppure con uno sforzo d’immaginazione. Sembrava piuttosto una specie di tromba d’aria. Lei esitò. Non voleva sprecare la magia consumando il carboncino su cose non essenziali, e non prima che Ducon ritornasse. Ma la forza che le aveva mosso la mano sembrava molto sicura di sé. Incuriosita, lasciò che il carboncino corresse a suo piacere sulla carta.
Dapprima non prestò attenzione ai rumori che si udivano all’esterno. Per quanto ne sapeva lei, erano parte della vita quotidiana del palazzo. Ciò che il carboncino stava disegnando sembrava un guazzabuglio irriconoscibile, ma la affascinava, perché ogni tanto vedeva apparire qualcosa di chiaro: un dito ornato da un anello, un orecchio. Era come se una figura umana stesse cercando di emergere da quel rutilante caos. Fu solo quando i rumori furono abbastanza vicini da suddividersi in suoni separati — voci secche, un pesante scalpiccio, colpi battuti alla porta — che capì di essere nei guai.
Il tonfo della porta di fronte a quella di Lydea che veniva aperta la fece alzare di scatto. Il carboncino e il foglio le caddero al suolo. Mag si guardò attorno disperatamente, e vide soltanto una possibilità: le coltri ammucchiate sul letto ancora sfatto. Aveva appena afferrato il lenzuolo e la coperta tra le braccia, quando la porta della stanza di Lydea fu spalancata.
La Perla Nera la guardò. Lei si affrettò a inchinarsi, e fece udire l’ansito intimorito che ci si poteva aspettare da una serva. Ma quei vecchi occhi astuti non si lasciarono imbrogliare. Essi riconobbero, a sette anni di distanza, la giovane assistente della maga che aveva inghiottito un cuore.
«Tu!» sbottò, aspramente. Entrò nella stanza, mentre le guardie si affollavano sulla soglia; non c’era via di fuga. Il medaglione penzolava aperto dal collo di Mag; lo strano disegno era atterrato ai suoi piedi; il carboncino, ancora intero e all’apparenza non usato, giaceva sul pavimento accanto a esso. Il pollice e l’indice di Mag erano sporchi di nero.
A occhi bassi sentì il volto di Domina Pearl accostarsi al suo; nell’aria c’era un odore stantio, muschioso. Una mano della donna le s’infilò tra i capelli, ruvida come un artiglio, e le fece alzare la testa. «Ti avevo avvertito di non spiarmi. Avresti dovuto ascoltare.»
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