La donna si punse un dito con uno spillone e imprecò. Mag le guardò la mano, incuriosita. Ciò che vide uscire dalla piccola ferita della pelle incartapecorita era più giallo che rosso. Si accorse che l’altra mancava di un pollice. Il suo volto irrigidito dalla rabbia era antico e ricordava quello che Faey aveva talvolta al mattino, appena sveglia: non finito, con qualche osso o una narice fuori posto. La Perla Nera aveva perduto un sopracciglio. E anche un orecchio, notò Mag, stupita. Poi si sentì defluire il sangue dal viso.
Guardò il disegno. La Perla Nera fece lo stesso, alla ricerca del suo orecchio mancante. D’un tratto strinse i denti producendo uno strano rumore, come il cardine di una porta arrugginito, e abbatté il tacco di una scarpa sul carboncino, continuando a pestarlo finché non ne rimase che una chiazza di polvere sui mattoni. Quindi si chinò a raccogliere il foglio, con attenzione, come se temesse che i suoi pezzi mancanti potessero caderne fuori. Mag si sentì pungere gli occhi e li chiuse subito. Pochi momenti ancora e forse qualcosa di vitale sarebbe stato risucchiato via da Domina Pearl e dentro il disegno. Se soltanto lei avesse cominciato a disegnare prima, o se avesse ascoltato i rumori esterni e nascosto il…
La catena del medaglione le morse il collo e fu strappata via. La Perla Nera la spinse sgarbatamente verso la porta. «Toglietele quegli spilloni dai capelli», disse alle guardie. Gli uomini la afferrarono ed eseguirono l’ordine con rude efficienza, finché i capelli le caddero su viso. Mag, con gli occhi pieni di lacrime, sbatté le palpebre per schiarirseli, e guardò le spille e gli spilloni intorno ai suoi piedi. Soltanto essi sarebbero rimasti lì ad aspettare l’arrivo di Ducon.
«E così, la bambola di cera ha imparato a piangere lacrime umane», commentò la Perla Nera. La tirò per i capelli, costringendola a guardarla negli occhi. «È stata la maga a mandarti qui, con quel carboncino? Lo ha fatto lei? Sta complottando contro di me?»
«No…» Mag ansimò, mentre l’artiglio tra i capelli la strattonava ancora.
«La tua padrona sta cominciando a darmi fastidio. Ha intrappolato Camas Erl nelle rovine della storia; ti manda a becchettarmi come un avvoltoio. Ora scopriremo con più precisione quello che tu vali per Faey. Se le importa qualcosa di te, verrà a cercarti. Allora vi avrò in mano entrambe, intrappolate in un posto fuori dal tempo, dove la storia non c’è e gli unici fantasmi sono i miei. Tu, e tu», disse a due guardie, «appostatevi qui, e portate da me chiunque entri da quella porta. Voialtri, prendete la ragazza e seguitemi.»
Le guardie circondarono Mag e la presero per le braccia e per i capelli. La Perla Nera aprì una porticina mimetizzata e li precedette nei passaggi segreti del palazzo.
Quando era caduto nel sottomondo, Ducon aveva la mente ottenebrata dal veleno, così ricordava soltanto la porta da cui ne era uscito. L’insegna sopra quella porta raffigurava due eleganti mani guantate, che si separavano come per rivelare chissà quale meraviglia; tra di esse fluttuavano bollicine multicolori. Il piccolo negozio di guantaio era schiacciato tra due grossi magazzini, e sorgeva in un vicolo pieno di pozze d’acqua e di sangue proveniente dal macello che ne occupava l’altro lato, di fronte al quale erano posteggiati carri di pelli puzzolenti destinate alla conceria. Che il negozio avesse mai venduto un paio di guanti era cosa dubbia, almeno quanto lo era l’eventualità che qualcuno in vena di acquisti eleganti osasse avventurarsi in quella lurida stradicciola.
Nell’interno del negozio non c’era niente, a parte due muri spogli e una scala di mattoni che partiva dalla porta per scendere direttamente al fiume. Ducon vide che i lampioni sulle rive del corso d’acqua erano ancora accesi, a quell’ora del mattino. Un suono proveniente dal basso lo fece rallentare, finché il ricordo dei suoi giorni di convalescenza in casa della maga gli permise d’identificarlo: il ritmico susseguirsi di sospiri e poderosi grugniti che era il russare di Faey.
Si trovava a metà della scala quando il russare cessò.
La maga lo stava aspettando sul fondo. Era spettinata, ancora insonnolita, con un volto non troppo visibile nella fioca luce dei lampioni, e forse non si trovava neppure del tutto lì. Sbadiglio a lungo e rumorosamente, aggiustandosi con qualche gesto distratto la massa scarmigliata dei capelli. Quel mattino li aveva bianchi. Uno dei suoi occhi era turchese, l’altro rosso smeraldo, come se prima di metterli avesse dovuto cercarli al buio in una scatola piena di ricambi. Dietro di lei, nella penombra, Ducon poteva vedere l’inquieta corrente di fiochi bagliori dei suoi poteri, che non invecchiavano e non dormivano mai.
Faey borbottò qualcosa, tirò fuori dal nulla uno specchio e con attenzione ristrutturò la curva di un sopracciglio devastato. Poi fece sparire lo specchio.
«Ducon, che stai facendo qui, a quest’ora del mattino?» domandò.
«Sono venuto per Camas Erl.»
Lei sbuffò. «Non vale la pena di salvarlo. Lo lascerei perdere, se fossi te.»
«Domina Pearl mi ha mandato a riportarlo indietro», la informò lui, e vide una luce scintillare cupa sia negli occhi della maga che nel suo fluttuante manto di magia. Faey sedette su uno scalino e gli accennò di mettersi accanto a lei.
«Tiene tanto a quell’uomo?» si stupì. «L’ha tradita in minor tempo di quello che ci avrebbe messo a decidere se lavarsi i denti. È un vecchio idiota.»
«Forse, ma lei lo rivuole. E tu cosa farai? Mi fermerai?»
«No. Prenditelo pure. Io lo trovo irritante. Ma non ti sarà facile staccarlo da quegli spettri. È come perduto nella storia, e borbotta di non so quali trasformazioni. Dubito che ti guarderà due volte, salvo che tu sia morto.»
«Non potresti aiutarmi? Mi è stato ordinato di chiedertelo. Domina Pearl dice che non le hai mai rifiutato niente.»
Lei distolse lo sguardo. Si appoggiò all’indietro sugli scalini guardando pigramente qualcosa, forse i riflessi colorati della sua magia nel sottomondo. «Già, non le ho mai rifiutato niente», mormorò. «Ma non ti aiuterò. Quei due non mi piacciono, e non m’importa una scoreggia di gatto se Camas Erl e la Perla Nera si riuniranno o meno, nel mondo di sopra.» Alzò una mano per far girare la testa a Ducon e gli guardò l’escoriazione sulla tempia. I suoi occhi diventarono all’improvviso neri e senza pupille, vuoti come quelli delle statue antiche. «Anche tu menti», disse. «Anche tu.»
«Devo farlo, in quel palazzo.» Adesso le iridate correnti di magia emanavano dagli occhi di lei. Ducon non poté distogliere lo sguardo.
«Tu dici una cosa alla Perla Nera, un’altra a Kyel, un’altra all’uomo che per poco non è riuscito a ucciderti. Ci ha provato ancora?»
Lui annuì, ripensando al freddo metallo contro la gola e agli occhi folli della manticora. «Mi ha teso un agguato ed è fuggito in preda al panico. Da allora non l’ho più visto.»
«Ci sono altri.»
«Sì», Ducon udì se stesso dire, sottovoce. «Vogliono che io uccida quella donna e governi Ombria.»
«Lo farai?»
Lui esitò, pensando alla Perla Nera e ai suoi specchi che lo sorvegliavano. La maga sorrise. «Qui non può vederti. Ora sei nei miei specchi, nelle mie illusioni.» Poi aggiunse, come se gli leggesse nella mente: «E così, a questi altri, tu non hai mai detto di sì, e neppure di no».
«L’ho fatto per il bene di Kyel», sussurrò lui. Le sue mani si erano chiuse come per tenere strette tutte le possibilità, tutte quelle che lui gettava in aria e tratteneva dal cadere nel mondo superiore. «Loro non vedono come Kyel possa essere necessario; vogliono liberarsi di lui al più presto. Sono giovani, ambiziosi, disperati…»
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