Tim Powers - Mari stregati

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Una fantasy orrorifica con i pirati, uno spadaccino voodoo? Chi potrebbe mai mescolare il mondo del pirata Barbanera con la magia nera se non Timothy Powers, il creatore di Le Porte di Anubis, l’autore più originale e geniale prodotto dal mondo fantascientifico e fantastico negli ultimi decenni. Lo scenario di questo eccezionale romanzo è il Mar dei Caraibi del 1718, periodo di grandi cambiamenti per i pirati, un tempo strumento dell’Impero Britannico, libera forza mercenaria che non riveste più nessuno scopo strategico per gli inglesi. È su questo scenario in evoluzione che compare il giovane John Chandagnac, ex burattinaio orfano alla ricerca di vendetta su uno zio malvagio. Ciurme di Zombie, magia nera, riti voodoo, giungle infestate da spettri: fra mille pericoli il protagonista inizierà una sorta di viaggio iniziatico che lo porterà in un luogo ignoto al di là del tempo e dello spazio, in un luogo mitico e terribile dove si cela la vagheggiata fonte della vita eterna. Partito per vendicarsi di un torto subito, Chandagnac andrà incontro al suo destino e troverà a sbarrargli la strada nientemeno che… il pirata Barbanera!

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La sensazione di un’enorme e attenta — ma silenziosa — entità là nelle tenebre divenne opprimente. Alla fine, Shandy alzò lo sguardo, impaurito, e sebbene potesse vedere l’intreccio di rami sopra la testa resi argentei dalla luna, seppe che una cosa invisibile si stava chinando su di loro, una cosa che viveva in quel luogo, che possedeva — e forse in larga parte ne era composta — quelle paludi e pozze e piante rampicanti e piccole creature anfibie, feconde in maniera repellente.

Anche gli altri, evidentemente, avvertirono la stessa cosa. Friend si sollevò pesantemente in piedi e poi quasi spense la torcia della barca gettandovi sopra una duplice manciata di erba nera; la fiamma brillò, bassa, ma un paio di secondi dopo divampò di nuovo, mandando una nuvola vorticante di quel fumo acre a dilatarsi verso l’alto in direzione dei rami che coprivano come un tetto il fiume.

Un grido proveniente dal cielo scosse i fiori dagli alberi e sollevò increspature sull’acqua così fitte e persistenti che per un momento le barche parvero adagiate sul pannello di vetro di un oblò pieno di solchi. Il suono si perse echeggiando nella giungla, e rimase solo il gracchiare degli uccelli spaventati, e, dopo che essi si calmarono, il sibilo dei baccelli fungoidi.

Shandy lanciò un’occhiata al più vicino grappolo di baccelli, e vide che le protuberanze fungoidi adesso erano davvero delle facce, e per il modo in cui le loro palpebre si contraevano fu infelicemente sicuro che ben presto avrebbe incontrato lo sguardo di quegli occhi.

Dietro di lui Davies stava imprecando con uno stanco tono uniforme.

«Non dirmi,» disse Shandy con voce ben controllata, «che era uno di quegli uccelli marroni e bianchi che mangiano le maledette lumache acquatiche.»

Davies latrò una sola sillaba di risata, ma non replicò. Shandy poté sentire Beth che piangeva piano.

«Ah, mia cara Margaret,» disse il vecchio Benjamin Hurwood con una voce soffocata ma fremente, «possano queste lacrime di gioia essere l’unica specie che tu mai verserai! E ora sii indulgente, ti prego, con un vecchio e sentimentale docente di Oxford. In questo giorno delle nostre nozze, mi piacerebbe recitarti un sonetto che ho composto.» Si schiarì la gola.

L’invisibile, acquitrinosa presenza incombeva ancora, soprannaturale, sull’aria mefitica, e le caviglie di Shandy stavano diventando sgradevolmente calde malgrado lo spesso cuoio fra le fibbie degli stivali e la sua pelle.

«Margaret!» cominciò Benjamin Hurwood, «Chiedo che una musa dantesca…»

«Siamo arenati,» fu il grido di Barbanera dall’avanguardia. «Smettete di spingere. Da qui in poi andremo a piedi.»

Cristo, pensò Shandy. «Sta… scherzando?» chiese, senza davvero sperarlo.

Invece di rispondere, Davies appoggiò il remo sulla barca, salì sulla poppa e s’immerse nell’acqua nera, che si rivelò profonda fino all’anca.

«…canti la mia gioia dopo quel giorno,» continuò a cantilenare Hurwood.

Shandy guardò avanti. Barbanera aveva tolto la torcia della sua barca dal sostegno, e lui e il suo inquietante barcaiolo stavano già in acqua e diguazzavano verso l’argine più vicino. Le ombre mutavano mentre loro si muovevano, e nuovi grappoli di teste fungoidi divennero visibili.

«Mr. Hurwood,» stava sibilando Leo Friend, mentre scuoteva l’uomo monco. «Mr. Hurwood! Svegliatevi, dannazione!»

«Quando,» continuò a declamare Hurwood, «nel mezzo della mia vita, Dio mi ha permesso di scegliere… di lasciare la selva oscura…»

Shandy poteva vedere le spalle di Beth che sussultavano. Bonnett stava seduto rigido e immobile come un manichino.

Barbanera e il suo barcaiolo si erano arrampicati sull’argine, e, ignorando le sfere bianche che si contraevano e sibilavano ai loro piedi, si stavano afferrando ai rampicanti penduli per continuare ad avanzare sul fango e sulle radici umide che s’inarcavano. «È necessario che stia sveglio,» gridò Barbanera a Friend. «Schiaffeggialo… forte. Se non servirà neppure questo verrò là e… gli farò qualcosa io stesso.»

Friend sorrise nervosamente, tirò indietro una mano grassoccia e la abbatté sulla faccia sorridente di Hurwood.

Hurwood emise un strillo che era quasi un singhiozzo, poi si girò a guardare le barche, ammiccando, di nuovo consapevole di ciò che realmente lo circondava.

«Non manca molto,» gli disse Barbanera, paziente, «ma lasceremo le barche qui.»

Hurwood scrutò per quasi un minuto l’acqua e l’argine melmoso. Alla fine, disse, «Dovremo trasportare la ragazza.»

«Darò io una mano a trasportarla,» gridò Shandy.

Friend rivolse a Shandy un’occhiata velenosa, ma Hurwood non si voltò neppure. «No,» disse il vecchio, «Friend, Bonnett ed io possiamo farlo.»

«Giusto,» disse Barbanera. «Noi altri saremo impegnati a scavarci un passaggio con le sciabole attraverso questa giungla.»

Shandy sospirò e mise giù il remo. Liberò la torcia della barca dal suo sostegno, la tese assieme all’involto di erbe nere a Davies, e poi scese dalla barca. Perlomeno, i suoi stivali lasciavano trapelare l’acqua, e l’acqua relativamente fresca dell’acquitrino lenì il calore dei piedi.

CAPITOLO DODICESIMO

Per mezzora la strana combriccola diguazzò, arrancò e si trascinò da un claustrofobico intrico di vegetazione a un altro; il braccio di Shandy che teneva il coltello stava tremando per la fatica di tagliare viticci e rami d’albero, ma lui avanzava caparbiamente, risollevandosi dalle polle in cui inciampava, costringendosi a respirare l’aria pungente, e stando sempre terribilmente attento a non permettere che la torcia che reggeva con l’altra mano si spegnesse, o bruciasse completamente tutta la sua erba nera.

Hurwood, Bonnett e Friend avanzavano barcollando alle sue spalle, e si fermavano a intervalli di poche iarde per trovare un nuovo modo di trasportare la torcia, le cassette di Hurwood, e Beth. Per due volte Shandy udì un disastroso tonfo multiplo in acqua, seguito da rinnovati singhiozzi da parte di Beth e da uno scroscio quasi incomprensibile di imprecazioni da parte del padre.

Poco dopo che gli otto avevano messo piede sul primo argine di fango, le teste fungoidi avevano cominciato a starnutire, e granuli di polvere simili a spore o a polline erano stati espulsi da quelle bocche molli; ma il fumo denso delle torce, che si librava basso, respingeva la polvere come se ogni torcia fosse la sorgente di un vento potente che solo la polvere poteva avvertire.

«Il respirare quella polvere,» disse Hurwood ansimando, quando, a un certo punto, diverse di quelle cose starnutirono contemporaneamente, «fu ciò che ti… regalò gli spettri, Thatch.»

Barbanera rise mentre tranciava un giovane albero con un colpo violento della corta sciabola. «Nuvole di uova di spettri, eh?»

Shandy, lanciando per un attimo un’occhiata alle sue spalle, vide Hurwood che sporgeva le labbra per esprimere la sua insoddisfazione di studioso. «Beh, grosso modo…» disse il vecchio mentre s’ingobbiva per sistemarsi sulle spalle in maniera più comoda le gambe di sua figlia.

Shandy tornò a svolgere il suo compito. Aveva cercato per tutto il tempo di tenersi a distanza dal barcaiolo di Barbanera, il quale, pallido in volto, faceva oscillare la sua sciabola come un metronomo al punto da ricordare a Shandy una di quelle figure animate da energia idraulica nei Giardini di Tivoli in Italia. Come risultato Shandy si era ritrovato, il più delle volte, fra Davies e Barbanera.

La sensazione di quella titanica, invisibile presenza si stava di nuovo intensificando, e di nuovo Shandy avvertì quella cosa che si chinava dal cielo sopra di loro, fissando con indignazione aliena gli otto intrusi.

Piantando il coltello in un albero per un momento, Shandy aprì la borsa di tela impermeabile e gettò una manciata di roba nera sulla torcia. Dopo un attimo una densa eruzione di fumo si gonfiò verso l’alto e quasi lo accecò mentre recuperava il coltello; ma questa volta, quando la nube di fumo disparve nella volta intricata della giungla, la foresta fu scossa da un basso brontolio — un rombo che scuoteva gli stivali ed esprimeva chiaramente rabbia, e, altrettanto chiaramente, proveniva da una gola non organica.

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