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Tim Powers: Mari stregati

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Tim Powers Mari stregati
  • Название:
    Mari stregati
  • Автор:
  • Издательство:
    Fanucci
  • Жанр:
  • Год:
    1994
  • Город:
    Roma
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    88-347-0417-7
  • Рейтинг книги:
    4 / 5
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Una fantasy orrorifica con i pirati, uno spadaccino voodoo? Chi potrebbe mai mescolare il mondo del pirata Barbanera con la magia nera se non Timothy Powers, il creatore di Le Porte di Anubis, l’autore più originale e geniale prodotto dal mondo fantascientifico e fantastico negli ultimi decenni. Lo scenario di questo eccezionale romanzo è il Mar dei Caraibi del 1718, periodo di grandi cambiamenti per i pirati, un tempo strumento dell’Impero Britannico, libera forza mercenaria che non riveste più nessuno scopo strategico per gli inglesi. È su questo scenario in evoluzione che compare il giovane John Chandagnac, ex burattinaio orfano alla ricerca di vendetta su uno zio malvagio. Ciurme di Zombie, magia nera, riti voodoo, giungle infestate da spettri: fra mille pericoli il protagonista inizierà una sorta di viaggio iniziatico che lo porterà in un luogo ignoto al di là del tempo e dello spazio, in un luogo mitico e terribile dove si cela la vagheggiata fonte della vita eterna. Partito per vendicarsi di un torto subito, Chandagnac andrà incontro al suo destino e troverà a sbarrargli la strada nientemeno che… il pirata Barbanera!

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Tim Powers

Mari stregati

…E anime disormeggiate possono andare alla deriva su mari stregati di quelli che gli uomini conoscono, ed essere capovolti da venti che non agiterebbero neppure un capello…

— William Hashbless

«Le porte dello sposo sono spalancate,
Ed io sono il parente più prossimo;
Gli ospiti son giunti, il banchetto è pronto:
Puoi udirne lo strepito.»

Egli lo trattiene con la mano scarna,
«C’era una nave,» disse…

— Samuel Taylor Coleridge

A Jim e Viki Blaylock, generosissimi e leali amici

e alla memoria di Eric Batsford e Noel Powers

Un grazie a David Carpenter, Bruce Oliver, Randall Robb, John Swartzel, Phillip Thibodeau e Dennis Tupper, per le chiare risposte date a domande poco chiare.

PROLOGO

Sebbene la brezza della sera gli avesse congelato la schiena mentre camminava, essa non aveva ancora dato inizio alla sua incombenza notturna di spazzar via dalle viti e dai tronchi dei palmizi addossati sull’isola l’aria umida che il giorno aveva lasciato dietro di sé, e la faccia di Benjamin Hurwood luccicava di sudore già prima che il nero lo avesse guidato per dieci iarde all’interno della giungla. Hurwood sollevò il machete che stringeva nella sua — unica — mano sinistra, e scrutò inquieto nelle tenebre che sembravano addensarsi dietro la vegetazione illuminata dalla torcia intorno a loro e in alto, poiché le storie di cannibali e serpenti giganti che aveva udito gli parvero in quel momento perfettamente plausibili, ed era difficile, a dispetto delle recenti esperienze, affidare la propria incolumità alla collezione di code di bue e sacchetti e statuine che oscillavano dalla cintura dell’altro uomo. In quella primeva foresta pluviale non era di alcun aiuto pensarli come gardes, arrets e drogues piuttosto che come feticci, oppure pensare il suo compagno come un bocor piuttosto che come uno stregone o uno sciamano.

Il nero gesticolò con la torcia e si voltò a guardarlo, «A sinistra adesso,» disse in un accurato inglese, e poi aggiunse rapidamente in uno dei dialetti degradati di Haiti, «e cammina con cautela — piccoli corsi d’acqua hanno scavato sotto il sentiero in molti punti.»

«Cammina più lentamente, allora, così posso vedere dove metti i piedi,» replicò Hurwood, irritato, nel suo fluente francese da manuale. Si domandò quanto avesse sofferto il suo accento, fino a quel momento perfetto, per essere stato esposto durante l’ultimo mese a tante strane variazioni di linguaggio.

Il sentiero divenne più ripido, e ben presto dovette rinfoderare il machete al fine di avere la mano libera per afferrare rami e tirarlo su, e per un po’ il suo cuore palpitò in maniera così allarmante che pensò che sarebbe scoppiato, malgrado la drogue protettiva che il nero gli aveva dato. Dopodiché, raggiunsero il livello sovrastante la giungla e la brezza marina li investì, ed egli gridò al compagno di fermarsi per poter riprendere fiato nell’aria pura e bearsi della sua freschezza nei bianchi capelli bagnati e nella camicia zuppa.

La brezza strepitò e frusciò frai rami dei palmizi sottostanti, e attraverso un varco frai tronchi più distanziati intorno a lui egli poté vedere l’acqua — un segmento chiazzato di chiarore lunare della Lingua dell’Oceano, sul quale loro due avevano navigato dall’Isola di New Providence quel pomeriggio. Rammentò di aver notato quella prominenza sulla quale si trovavano, e di essersi interrogato su di essa, mentre lottava per mantenere la vela orientata secondo le indicazioni della sua scontrosa guida.

Isola di Andros, veniva chiamata sulle mappe, ma la gente alla quale negli ultimi tempi si era unito la chiamava Isle de Loas Bossals, che, aveva dedotto, significava Isola degli Spiriti (o, sembrava talvolta, degli Dei) Selvaggi (o, forse più esattamente, Maligni). Personalmente, pensava ad essa come alla spiaggia di Persefone, dove sperava di trovare, finalmente, almeno una finestra che desse nella casa dell’Ade.

Sentì un gorgoglio dietro di lui e si voltò in tempo per vedere la sua guida che tappava una delle bottiglie. Acuto, nell’aria limpida, poté sentire l’odore del rum. «Maledizione,» sbottò Hurwood, «quello è per gli spiriti.»

Il bocor fece spallucce. «Portato troppo,» spiegò. «Se è troppo, vengono troppi.»

L’uomo con un braccio solo non rispose, ma ancora una volta desiderò di averne saputo abbastanza — invece che quasi abbastanza — per poter fare tutto da solo.

«Siamo vicini,» disse il bocor, ficcando la bottiglia nella borsa di pelle che gli pendeva dalla spalla.

Ripresero la loro andatura regolare lungo il sentiero di terra umida, ma Hurwood ora avvertiva un cambiamento… un’attenzione rivolta a loro.

Anche il nero l’avvertì, e si voltò, indirizzandogli un sogghigno da sopra la spalla ed esponendo delle gengive bianche quasi come i suoi denti. «Hanno annusato il rum,» disse.

«Sei sicuro che non si tratta soltanto di poveri indiani?»

L’uomo che lo precedeva rispose senza voltarsi. «Dormono ancora. Sono i loa quelli di cui avverti lo sguardo.»

Sebbene sapesse che non c’era ancora nulla fuori dell’ordinario da vedere, l’uomo con un solo braccio si guardò intorno, e per la prima volta gli venne in mente che quel panorama non era davvero così incongruo — quei palmizi e quella brezza marina probabilmente non differivano di molto da quelli che potevano trovarsi nel Mediterraneo, e le isole Caraibiche dovevano essere molto simili a quell’isola dove, migliaia di anni prima, Ulisse eseguì quasi esattamente la stessa procedura che essi intendevano eseguire quella notte.

Fu soltanto dopo che raggiunsero la radura sopra la collina che Hurwood realizzò di avere avuto paura per tutto il tempo. Non c’era niente di apertamente sinistro nella scena — uno spiazzo sgombro e piatto con una capanna da un lato e, al centro della radura, quattro pali che sostenevano un piccolo tetto di paglia sopra una cassa di legno — ma Hurwood sapeva che c’erano due indiani Arawak drogati nella capanna, e un fosso profondo sei piedi e rivestito di tela cerata all’altro lato della piccola tettoia.

Il nero raggiunse la cassa sotto il riparo — il trono, o l’altare — e con grande cura si staccò alcune statuine dalla cintura e le dispose su di essa. S’inchinò, retrocedette, quindi si raddrizzò e si voltò verso l’altro uomo, che lo aveva seguito fino al centro della radura. «Sai cosa bisogna fare adesso?» domandò il nero.

Hurwood sapeva che quella era una specie di prova da superare. «Spargere il rum e la farina intorno al fosso,» disse, cercando di apparire disinvolto.

«No,» disse il bocor, «subito. Prima di questo.» C’era un chiaro sospetto nella sua voce, adesso.

«Oh, capisco cosa vuoi dire,» disse Hurwood, prendendo tempo mentre la sua mente correva. «Pensavo che quello fosse sottinteso.» Cosa mai intendeva dire l’uomo? Ulisse aveva fatto prima qualche altra cosa? No… niente che lui ricordasse, ad ogni modo. Ma naturalmente Ulisse era vissuto quando la magia era semplice… e relativamente incorrotta. Doveva essere questo… adesso era sicuramente necessaria una procedura protettiva, data l’azione così eclatante che doveva essere compiuta, per tenere a bada quei mostri che avrebbero potuto essere messi in agitazione. «Ti stai riferendo alle misure protettive.»

«Che consistono in cosa?»

Quali precauzioni venivano usate, quando la magia funzionava ancora parecchio nell’emisfero orientale? Pentagrammi e cerchi. «I segni per terra.»

Il nero annuì, ammansito. «Sì. Il verver.» Appoggiò con cura la torcia a terra, frugò nella sacca e ne cavò una piccola borsa, dalla quale tirò fuori un pizzico di cenere grigia. «Farina della Guinea, la chiamiamo,» spiegò, poi si accovacciò e cominciò a spargere quella sostanza per terra secondo una complicata forma geometrica.

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