Orson Card - I giorni del cervo

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I giorni del cervo: краткое содержание, описание и аннотация

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Sinistri presagi indicano che da Antiqua è salpata una flotta di navi: navi nere, cariche di neri guerrieri, di strani animali capelluti e di armi che portano una morte senza volto. La guerra è imminente. Il Bene e il Male, come nel più epico dei racconti, esploderanno in una battaglia cruenta alla quale parteciperanno anche forze soprannaturali e magiche. Tutti i popoli del continente, superate le antiche divisioni, si uniranno a combattere con l’esercito del Cervo, guidato dal valoroso Dulkancellin. Gli uomini di pace si trasformeranno in guerrieri, e i guerrieri in eroi. La salvezza del continente dipende dal loro coraggio

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— Piccolo Re, non sai cosa chiedi.

— Lo farai?

— Non venire a lamentarti da me, Piccolo Re. Ama il bambino se vuoi, e lascia che ti ami, non mi importa, è lo stesso per me. — Voltò la faccia verso il muro.

— Un bambino deve conoscere il padre, se dev’essere felice.

— Non ne dubito. Solo una cosa, Piccolo Re: non mangerà cibo se non quello che succhierà dal mio seno. E non avrà nome.

Questo era sbagliato; non poteva essere. Non avere nome significa non avere identità. Orem lo sapeva. — Ti comando di dargli un nome.

— Fai presto a comandare adesso, vero? Come un bambino, senza pensare al prezzo delle cose. Aspetta di vedere come hanno funzionato i tuoi primi ordini, prima di darne di nuovi.

— Dagli un nome.

— Giovane — disse lei, sorridendo divertita.

— Non è un nome.

— Neppure Bella è un nome. Ma è più di quanto potrà guadagnarsi in tutta la sua vita.

— Giovane, dunque. E io sarò libero di vederlo.

— Oh, sei un delizioso sciocco. Ho tenuto con me i tre più buffi sciocchi del mondo per tutti questi anni, ma tu sei il migliore di tutti. Le Sorelle ti hanno riservato per ultimo. Avrai tutto il tempo che vorrai con il bambino, tutto il tempo che potrai usare è tuo. Che ti porti gioia.

Il bambino allungò una manina e strinse il naso di Orem, e rise.

— Hai sentito? Già ride! — E Orem non poté fare a meno di ridere a sua volta.

— È quello che succede con i nati di dodici mesi — disse Bella.

— Ogni giorno verrò a vederlo. Imparerà a conoscere la mia faccia, e sarà felice di vedermi; ho tempo abbastanza per questo.

Orem non lo sapeva, ma io credo che ogni parola che disse fu un dolore per Bella, perché le fece capire quanto lui già amasse il piccolo, e quanto poco amasse lei. Non poteva sorprenderla, ma non per questo le faceva meno male.

— Dammelo — disse. — Deve mangiare.

— Giovane — disse Orem al bambino, che sorrise. Lo porse a Bella, e questa volta il piccolo non ebbe bisogno di essere guidato al capezzolo. Bella guardò Orem con occhi stranamente timidi, come quelli di una cerbiatta. Aveva un’aria innocente e dolce, ma Orem non si lasciò ingannare. — Bella — disse — come sei sfuggita al dolore, dal momento che non l’hai passato a me?

— Che importa?

— Dimmelo. Te lo comando.

Studiando la sua faccia lei disse: — Mi hai comandato di allontanare il dolore; non mi hai detto a chi darlo.

Era vero, si rese conto. La seconda volta, quando lei l’aveva obbedito, non le aveva detto di darlo a lui. — Ma chi altri l’avrebbe accettato di sua volontà?

— La donna che fra tutte non poté sopportare di vedere questo corpo straziato. La donna a cui appartiene in realtà questa faccia.

Orem la guardò senza capire. Di chi era la faccia, se non di Bella? Orem non aveva mai saputo che Bella indossava una forma presa in prestito. Ma avendo saputo questo, non fu difficile comprendere chi in realtà aveva posseduto quella faccia.

— Donnola — sussurrò Orem. — Hai dato a lei il dolore.

— Abbiamo sempre condiviso i miei dolori — disse Bella. — Mi è sembrato giusto. Ha avuto l’uso di questo corpo durante la sua perfetta giovinezza… siamo d’accordo che è giusto che lei soffra parte del dolore dell’età adulta. — Bella sorrise teneramente a Orem. — E del piacere, anche. Ho fatto in modo che provasse la metà del piacere della nostra notte di matrimonio, Piccolo Re. Ho voluto che ricordasse cosa si prova a essere infedeli al proprio amato marito.

— Suo marito? — Orem non sapeva che Donnola avesse un marito.

— Che sciocco — disse Bella. — Suo marito, il Re! Palicrovol voleva farla Regina al posto mio. Perché altrimenti credi che la tenga qui? Donnola è Enziquelvinisensee Evelvenin, la Principessa dei Fiori. Voleva essere al mio posto, così io ho preso il suo. Dentro il suo corpo perfetto. Bene, il suo corpo perfetto ha avuto un parto che avrebbe potuto ucciderla. Ma grazie a te, il suo perfetto corpo non ha dovuto sopportare il dolore, o guarire dalla ferita. Peccato per la carne imperfetta che ora indossa. Quella può anche morire.

Orem non aveva compreso, fino a quel momento, la perfetta malvagità di Bella. — Sei tu che meriteresti la sua faccia — sussurrò.

— Sei il mio giudice? — chiese lei freddamente. — È per questo che sei venuto da me, per dirmi cosa merito?

Orem ripensò a Dobbick nella Casa di Dio, che gli aveva insegnato che Re Palicrovol si era attirato da sé le proprie sofferenze. — Ma lei non ti ha fatto nulla — disse.

— Ha preso il mio posto — disse Bella. — Quale sia la ragione, non mi interessa; ha preso il mio posto in questo palazzo, e paga per questo.

(Questo ragionamento dovrebbe esserti familiare, Palicrovol. Lui ha preso il mio posto al palazzo , hai detto, e perciò deve pagare. Quindi ammetti che Bella aveva ragione punendo la sposa che avevi portato da Onologasenweev?)

— Adesso capisco — disse Bella. — Adesso capisco. — E la sua faccia si fece scura.

— Cosa capisci? — disse Orem, temendo che lei vedesse ciò che lui veramente era.

— Capisco che lei ha preso il mio posto di nuovo.

— Sì! Sta soffrendo il dolore della nascita di tuo figlio.

— Ancora una volta ha l’amore di mio marito.

Orem la guardò incredulo. — Per un anno mi hai disprezzato. Come puoi essere gelosa di una cosa che hai gettato via? — E poi le mentì crudelmente, credendo di dire la verità. — Non ti ho mai amata.

Lei gridò contro le sue parole: — Tu mi hai adorata!

— In nome di Dio, donna! Ti odio più di qualsiasi anima vivente, se sei viva, e se hai un’anima! Sei vecchia di trecento anni e non hai più amore in te di una mantide per il compagno, e non mi… non mi…

— Cosa? Cosa?

— Non mi avrai mai più nel tuo letto.

— Se mi volevi, ragazzo, perché non sei venuto e l’hai chiesto?

— Avresti riso di me.

— Sì — disse lei. — Rido di tutte le cose deboli del mondo. E quando mi lascerai e andrai da Donnola Bocca-di-Verità, e la conforterai, io me ne starò qui a ridere.

— Ridi pure di me quanto vuoi. — Orem si voltò per andarsene.

— Ma non riderò di te.

Lui si fermò alla porta. — E di chi?

— Di me.

Orem si voltò a guardarla. — Tu non sei una delle cose deboli del mondo.

Lei sorrise malignamente. — Non per molto. Non dopo che avrò terminato quello che ho cominciato con te.

Orem era sicuro che intendesse la sua morte.

— Cantami una canzone, Piccolo Re. Una canzone della Casa di Dio. Certamente ti avranno insegnato delle canzoni nella Casa di Dio.

Orem cantò la prima cosa che gli venne in mente. Era il pezzo favorito del diacono Dobbick, dal Secondo Canto.

“Dio vede i tuoi peccati, amore mio,
il buio del tuo cuore, amore mio.
Li pesa con le tue sofferenze.
Quale pesa di meno, amore mio?”

— Ancora — disse lei.

E quando lui l’ebbe cantata due volte, lei gliela fece ricantare ancora, e ancora, e ancora, e si dondolava, allattando il piccolo. Malgrado il suo odio, Orem non aveva mai visto una cosa che gli piacesse altrettanto: il suo bambino che succhiava dal seno di sua moglie, come il grano succhia il terreno. Amava il suo bambino istintivamente, come Avonap aveva amato i suoi figli e i suoi campi. Rimpianse ogni parola che aveva detto che potesse indurla a ucciderlo prima, privandolo di un’ora con Giovane.

Alla fine lei non mormorò: — Ancora — quando ebbe terminato la canzone.

— Perdonami — sussurrò Orem. Ma lei non lo sentì. Si era addormentata.

Così la lasciò, e andò a cercare Donnola, che aveva sopportato il dolore di Bella per suo ordine.

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