Margaret Weis - Il destino dei gemelli

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Il Gran Sacerdote camminò fin davanti all’altare, muovendosi lentamente, con lo sguardo che guizzava a destra e a sinistra. Tas si chiese se, il Gran Sacerdote avrebbe visto Crysania, ma a quanto pareva era accecato anche lui dalla propria luce, poiché il suo sguardo le passò sopra senza notarla. Arrivato all’altare, non s’inginocchiò a pregare come aveva fatto Crysania. Tas ebbe l’impressione che fosse sul punto di farlo, ma poi il Gran Sacerdote scosse rabbiosamente la testa e rimase là in piedi.

Dal suo punto di visuale, direttamente dietro e un po’ sulla sinistra dell’altare, Tas era in grado di contemplare senza difficoltà la faccia dell’uomo. Ancora una volta il kender strinse il magico congegno in preda all’eccitazione, poiché l’espressione di puro terrore in quegli occhi acquosi era stata nascosta dalla maschera dell’arroganza.

«Paladine,» strombazzò il Gran Sacerdote, dando a Tas la chiara impressione che quell’uomo si stesse rivolgendo a un subalterno. «Paladine, vedi il male che mi circonda! Sei stato testimone delle calamità che hanno flagellato Krynn nei giorni scorsi. Tu sai che questo male è diretto contro la mia persona, poiché io sono il solo che lo combatte! Certamente, adesso devi aver capito che questa dottrina dell’equilibrio non può funzionare!»

La voce del Gran Sacerdote perse quello squillo aspro, per diventare morbida e sommessa come un flauto. «Capisco, naturalmente. Ai vecchi tempi, quand’eri debole, dovevi praticare questa dottrina. Ma adesso hai me, il tuo braccio destro, il tuo vero rappresentante su Krynn. Con la nostra potenza unita, posso spazzare via il Male da questo mondo. Posso distruggere la razza degli orchi! Mettere in riga i capricciosi umani! Trovare nuove terre lontane per i nani e i kender e gli gnomi, quelle razze che non hai creato...»

Che insulto! pensò Tas, irritatissimo. Ho una mezza idea di lasciare che procedano e gli facciano cascare addosso la montagna!

«E regnerò nella gloria,» la voce del Gran Sacerdote divenne un crescendo, «dando inizio a un’epoca in grado di rivaleggiare perfino con la favolosa Era dei Sogni!» Il Gran Sacerdote spalancò le braccia. «Paladine, hai dato questo e anche di più a Huma, il quale altri non era che un cavaliere rinnegato di infimi natali! Esigo che tu dia anche a me il potere di cacciare le ombre del Male che oscurano questa terra.»

Il Gran Sacerdote a questo punto tacque, aspettando, con le braccia sollevate.

Tas trattenne il fiato, aspettando anche lui, stringendo il magico congegno fra le mani.

E poi il kender sentì la risposta. L’orrore s’impadronì di lui, una paura che non aveva mai provato prima, neppure in presenza di Lord Soth o vicino al Bosco di Shoikan. Tremando, il kender cadde sulle ginocchia e chinò la testa, piagnucolando e tremando, implorando misericordia e perdono da qualche forza invisibile. Potè sentir giungere, da oltre la tenda, in risposta al suo farfugliare incoerente, un’eco, e seppe che Crysania era là, e anche lei sentiva quell’orribile collera rovente che si stava abbattendo su di loro come il tuono della tempesta.

Ma il Gran Sacerdote non disse una sola parola. Rimase là a fissare speranzoso il cielo che non poteva vedere attraverso le massicce mura e i soffitti del suo Tempio... il cielo che non poteva vedere a causa della propria luce.

Capitolo diciassettesimo.

Fermamente deciso ad agire, Caramon piombò in un sonno esausto e, per alcune ore, fu benedetto dall’oblio. Si svegliò con un sussulto e trovò Raag chino su di lui intento a spezzargli le catene.

«E questi?» gli chiese Caramon, sollevando i polsi imprigionati.

Raag scosse la testa. Anche se Arack non pensava proprio che lo stesso Caramon sarebbe stato così pazzo da tentare, disarmato, di sopraffare l’orco, il nano aveva visto abbastanza follia negli occhi dell’uomo, la sera prima, da non voler correre rischi.

Caramon sospirò. Sì, aveva preso davvero in esame quella possibilità, come ne aveva esaminate molte altre quella notte, ma l’aveva scartata. La cosa più importante era rimanere in vita, per lo meno fino a quando non si fosse assicurato che Raistlin era morto. Dopo, niente avrebbe più avuto importanza...

Povera Tika... Avrebbe atteso, atteso, fino a quando un giorno si sarebbe svegliata rendendosi conto che lui non sarebbe mai più tornato a casa.

«Muoviti!» grugnì Raag.

Caramon si mosse, seguendo l’orco su per le scale umide e contorte che conducevano fuori dai magazzini sotto l’arena. Scosse la testa, sgombrandola dai pensieri su Tika. Questi avrebbero potuto indebolire la sua determinazione, e lui non poteva permetterselo. Raistlin doveva morire. Era come se la notte scorsa il lampo avesse illuminato una parte della mente di Caramon che era rimasta al buio per anni. Infine, aveva visto la vera portata delle ambizioni di suo fratello, la sua bramosia di potere. Infine, Caramon aveva smesso di cercare delle scusanti per lui. Lo irritava ammetterlo, ma perfino l’elfo scuro, Dalamar, conosceva Raistlin assai meglio di lui, suo fratello gemello.

L’amore l’aveva accecato e, a quanto pareva, aveva accecato anche Crysania. Caramon ricordò un detto di Tanis: «Non ho mai visto nulla fatto per amore che abbia portato al male». Sbuffò. Be’, c’era una prima volta per tutto (questo era stato uno dei detti favoriti di Flint). Una prima volta... e un’ultima.

Caramon non aveva nessuna idea di come avrebbe fatto a uccidere suo fratello. Ma non era preoccupato. Dentro di sé provava una strana sensazione di pace. Stava pensando con una chiarezza e una logica che lo lasciavano stupefatto. Sapeva di poterlo fare. E neppure Raistlin avrebbe potuto fermarlo, non questa volta. L’incantesimo magico del viaggio nel tempo avrebbe richiesto la completa concentrazione del mago. L’unica cosa che avrebbe potuto fermare Caramon era la morte stessa.

E perciò, si disse Caramon trucemente, dovrò vivere.

Rimase tranquillo, senza muovere un muscolo o pronunciare una parola, mentre Arack e Raag si sforzavano di farlo entrare nella sua armatura.

«Non mi piace,» borbottò il nano più di una volta rivolto all’orco, mentre vestivano Caramon.

L’espressione calma, impassibile dell’omone rendeva il nano ancora più inquieto che se si fosse trovato davanti a un toro infuriato. L’unica volta che Arack vide un guizzo di vita sulla faccia stoica di Caramon fu quando gli affibbiò la spada corta alla cintura. L’omone abbassò lo sguardo su di essa, riconoscendo l’inutile materiale di scena per quello che era. Arack lo vide sorridere amaramente.

«Tienilo d’occhio,» ordinò Arack, e Raag annuì. «E tienilo lontano dagli altri finché non entrerà nell’arena.»

Raag annuì di nuovo, poi condusse Caramon, con le mani legate, dentro i corridoi sotto l’arena dove gli altri aspettavano. Kiiri e Pheragas lanciarono un’occhiata a Caramon quando entrò. Il labbro di Kiiri si arricciò, e gli voltò freddamente le spalle. Caramon incontrò lo sguardo di Pheragas senza batter ciglio, senza pregare o implorare con gli occhi. Questo non era ciò che Pheragas si era aspettato, a quanto pareva. Dapprima il nero parve confuso poi, dopo che Kiiri gli ebbe bisbigliato qualche parola, anche lui gli voltò le spalle. Ma Caramon vide anche le spalle di Pheragas abbassarsi all’improvviso, mentre l’uomo scuoteva la testa.

Poi un fragore si levò dalla folla, e Caramon spostò lo sguardo su ciò che poteva vedere delle tribune. Era quasi mezzogiorno. I Giochi sarebbero cominciati all’Alta Veglia in punto. Il sole risplendeva nel cielo, la gente, essendo riuscita a dormire un po’, era numerosa e di umore particolarmente buono. Erano previsti alcuni combattimenti preliminari, per stuzzicare l’appetito della folla e accrescere la tensione. Ma la vera attrazione era lo Scontro Finale, quello che avrebbe stabilito chi sarebbe stato il campione, lo schiavo che avrebbe vinto la propria libertà o, nel caso del Minotauro Rosso, abbastanza ricchezze da durargli per anni.

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