Margaret Weis - La sfida dei gemelli

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Probabilmente si sarebbe trattato della Veste Rossa, Justarius. Dalamar non aveva nulla in contrario.

Sapeva di non essere ancora abbastanza potente per diventare il nuovo arcimago. Non ancora, comunque. Ma serpeggiava anche la sensazione che si dovesse anche scegliere un nuovo Capo dell’Ordine delle Vesti Nere. Dalamar sorrise. Non aveva alcun dubbio su chi sarebbe stato. Aveva fatto tutti i suoi preparativi per partire. I guardiani avevano ricevuto le loro istruzioni: nessuno, vivo o morto, doveva venire ammesso alla Torre durante la sua assenza. Non che fosse probabile. Il Bosco di Shoikan manteneva la propria truce vigilanza, indenne alle fiamme che avevano spazzato il resto di Palanthas. Ma la tenebrosa solitudine che la Torre aveva conosciuto per tanto tempo sarebbe presto finita.

Per ordine di Dalamar, parecchie stanze all’interno della Torre erano state pulite e rimesse a nuovo.

Dalamar aveva l’intenzione di ritornare portando con sé parecchi apprendisti: Vesti Nere, certo, ma forse una o due Vesti Rosse, se ne avesse trovato qualcuna di adatta. Sperava di poter trasmettere le capacità che aveva acquisito, il sapere che aveva imparato. E, lo ammise a se stesso, desiderava compagnia. Ma, prima, c’era qualcosa che doveva fare.

Prima di entrare nel laboratorio, si fermò sulla soglia. Non era più tornato in quella stanza da quando Caramon lo aveva trasportato fuori di lì, nell’ultimo, fatidico giorno. Adesso era notte. La stanza era al buio. Ad una sua parola le candele si accesero guizzando, riscaldando la stanza con la loro morbida luminosità. Ma le ombre rimasero sospese negli angoli come creature viventi.

Tenendo alto il candelabro che stringeva in mano, Dalamar compì un lento giro della stanza, scegliendo diversi oggetti, pergamene, una bacchetta magica, diversi anelli, e li mandò, pronunciando una semplice parola, giù, nel suo studio.

Passò davanti all’angolo scuro dove Kitiara era morta. Il suo sangue ancora macchiava il pavimento. Quel punto della stanza era freddo, ghiacciato, e Dalamar non vi si attardò. Passò davanti al tavolo di legno con i suoi becher e le sue bottiglie, gli occhi lo fissarono ancora imploranti dal loro interno. Con una parola li chiuse... per sempre.

Infine giunse davanti al Portale. Le cinque teste di drago, eternamente rivolte verso il vuoto, urlavano ancora il loro silenzioso, pietrificato peana alla Regina delle Tenebre. L’unica luce che risplendeva sopra quelle teste scure, metalliche, senza vita era il riflesso delle sue candele. Dalamar guardò dentro il Portale. Non c’era niente. Dalamar lo fissò per lunghi momenti. Poi, allungando la mano, tirò un cordone di seta dorata che pendeva dal soffitto. Una pesante tenda scese giù, avvolgendo il Portale in uno strato di denso velluto purpureo.

Voltandosi dall’altra parte, Dalamar si trovò a guardare gli scaffali che si trovavano proprio in fondo al laboratorio. La luce delle candele illuminava file di volumi rilegati in azzurro-notte, decorati di rune d’argento. Un freddo intenso s’irradiava da essi.

I libri degli incantesimi di Fistandantilus, adesso suoi. E là dove quelle file di libri terminavano, cominciava una nuova fila di libri: volumi rilegati in nero decorati con rune d’argento. Ognuno di quei volumi, Dalamar lo constatò toccandone uno con la mano, bruciava d’un calore interiore che faceva sembrare stranamente vivi quei libri al tocco. Dalamar guardò con attenzione ogni libro.

Tutti, non uno escluso, contenevano le proprie meraviglie, i propri misteri e... il proprio potere.

L’elfo scuro percorse gli scaffali in tutta la loro lunghezza. Quando giunse là dove finivano, accanto alla porta, mandò il candelabro a posarsi sul grande tavolo di pietra. Con una mano già sulla maniglia, tese l’altra verso un ultimo oggetto.

In un angolo oscuro c’era il Bastone di Magius, appoggiato alla parete. Per un attimo Dalamar trattenne il respiro, pensando di aver visto una luce scaturire dal cristallo in cima al Bastone... il cristallo che era rimasto freddo e scuro sin da quel giorno. Ma poi si rese conto, con una sensazione di sollievo, che era soltanto il riflesso della luce delle candele. Con una parola estinse le fiamme, facendo piombare la stanza nell’oscurità.

Guardò da vicino l’angolo in cui si trovava il Bastone. Era smarrito nella notte, non c’era nessun luccichio.

Inspirando a fondo, e poi esalando un lungo sospiro, Dalamar uscì dal laboratorio. Chiuse con decisione la porta alle proprie spalle. Affondò la mano in una scatola di legno, sulla quale erano incise rune potenti, ne estrasse una chiave d’argento e l’infilò in una serratura d’argento decorata, una serratura nuova, una serratura che non era stata fatta da nessun fabbro su Krynn. Bisbigliando parole magiche, Dalamar girò la chiave nella serratura. Si udì uno scatto. Ne seguì un secondo. La trappola mortale era predisposta.

Dalamar si voltò e chiamò a sé uno dei guardiani. Al suo ordine, quegli occhi disincarnati galleggiarono fino a lui.

«Prendi questa chiave,» gli disse Dalamar, «e tienila con te per tutta l’eternità. Non consegnarla a nessuno, neppure a me. E da questo momento in avanti, il tuo posto è a guardia di questa porta.

Nessuno deve entrare, e che la morte sia rapida per coloro che lo tenteranno.»

Gli occhi del guardiano si chiusero per assentire. Mentre Dalamar ridiscendeva le scale, vide gli occhi, riaperti, incorniciati dalla porta, che rivolgevano alla notte il loro gelido bagliore.

L’elfo scuro annuì fra sé, soddisfatto, e proseguì per la sua strada.

Il Ritorno a Casa.

Toc, toc, toc. Tika Waylan Majere si rizzò a sedere sul letto.

Cercando di sentire al di sopra del battito del proprio cuore, ascoltò, aspettando d’identificare il rumore che l’aveva svegliata dal suo sonno profondo.

Niente.

L’aveva sognato? Spingendo indietro la massa dei riccioli rossi che le ricadevano sul viso, Tika guardò assonnata fuori dalla finestra. Era mattino presto. Il sole non era ancora spuntato, lasciando il cielo limpido e azzurro sullo sfondo della luce zodiacale. Gli uccelli si erano svegliati, dando inizio alle loro attività domestiche, cinguettando e litigando allegramente. Ma a Solace non si era mosso ancora nessuno. Di solito, perfino il guardiano notturno soccombeva alla calda, dolce influenza delle notti primaverili, e a quell’ora dormiva, con la testa che gli era ricaduta sul petto, russando pacificamente.

Devo aver sognato, si ripetè Tika, spaventata. Mi chiedo se mi abituerò mai a dormire da sola...

Ogni più piccolo rumore mi fa svegliare del tutto.

Rintanandosi un’altra volta nel letto, cercò di rimettersi a dormire. Stringendo gli occhi con forza, Tika finse che Caramon si trovasse là. Giaceva accanto a lui, premuta contro il suo ampio petto, e lo sentiva respirare, sentiva battere il suo cuore, caldo, sicuro. La mano di Caramon le batté sulla spalla mentre lui mormorava sonnacchioso, «È soltanto un brutto sogno, Tika... domattina sarà tutto sparito...»

Toc, toc, toc.

Tika spalancò gli occhi. Non aveva sognato! Il rumore, qualunque fosse la causa, veniva da sopra!

Qualcuno, o qualcosa, era là in alto... in alto, sul vallenwood!

Buttando da parte le coperte e muovendosi furtiva, in silenzio, come aveva imparato durante le sue avventure guerresche, Tika afferrò una vestaglia dai piedi del letto, si contorse per infilarsela (era tanto nervosa che confuse le maniche), e scivolò fuori dalla camera da letto.

Toc, toc, toc.

Strinse le labbra con decisione. Qualcuno era là sopra, sopra la sua nuova casa. La casa che Caramon stava costruendo per lei, in alto tra i rami del vallenwood. Cosa stavano facendo?

Rubando? C’erano gli arnesi di Caramon...

Tika quasi scoppiò a ridere, ma invece venne fuori un singhiozzo. Gli arnesi di Caramon! Il martello con la testa sbilenca che volava via tutte le volte che colpiva un chiodo, la sega alla quale mancavano tanti denti da farla assomigliare a un nano dei fossi sogghignante, la pialla che non avrebbe lisciato neanche il burro. Ma erano oggetti preziosi per Tika. Non li aveva toccati, erano sempre dove li aveva lasciati lui.

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