Robert Silverberg - Gilgamesh
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- Название:Gilgamesh
- Автор:
- Издательство:Fanucci
- Жанр:
- Год:1988
- Город:Roma
- ISBN:8-8347-0051-1
- Рейтинг книги:3 / 5. Голосов: 1
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«Sei giorni e sei notti il vento soffiò e la tempesta e la pioggia spazzarono il Paese. Il settimo giorno la tempesta si calmò: le acque dell’inondazione non si alzarono più, il turbolento mare diventò tranquillo. Ziusudra aprì il portello della nave e uscì sul ponte. Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi gli piegò le ginocchia per il terrore. Tutto era calmo. Ma egli non vedeva terre, solo l’acqua si stendeva in ogni direzione, fino all’orizzonte. Impaurito e intimorito, si coprì la testa e pianse, perché aveva capito che tutto il genere umano era tornato ad essere argilla, tranne coloro che egli aveva salvato a bordo della nave. Aveva capito che il mondo e tutto ciò che conteneva! era perito.
«Veleggiò su quella grande distesa di acque, in cerca di una costa. Dopo qualche tempo vide le pendici scure e massicce del Monte Nisir ergersi al di sopra delle acque. Si diresse verso di esse, e la nave si fermò. Era ben ancorata e non si muoveva. Tre giorni, quattro, cinque, sei, la nave restò ferma accanto alla montagna. Il settimo giorno, Ziusudra liberò una colomba, ma l’uccello non trovò nessun luogo dove posarsi, e tornò. Liberò una rondine, ma la rondine non aveva dove atterrare, e anch’essa tornò indietro. Poi Ziusudra liberò un corvo. L’uccello volò in alto e lontano, e vide che le acque avevano cominciato a ritirarsi: volò in un ampio cerchio, trovò qualcosa da mangiare, gracchiò, volò via e non tornò più alla nave. Allora Ziusudra aprì tutti i portelli ai quattro venti e alla luce del sole. Uscì e salì su una montagna. Offrì una libagione, offrì sette vasi santi, e altri sette. Bruciò canna, legno di cedro e mirto per gli Dei che lo avevano risparmiato. Gli Dei sentirono l’aroma del sacrificio e arrivarono per goderne. Inanna fu tra coloro che arrivarono, coperta di tutte le gemme del cielo, e gridò: «Sì, venite, o Dei! Venite. Ma Enlil non venga, perché è stato lui a colpire con il diluvio il mio popolo!»
«Ciononostante, Enlil arrivò. Si guardò intorno infuriato e chiese di sapere com’era possibile che qualche essere umano fosse sfuggito alla distruzione. “Dovresti chiederlo a Enki,” disse Ninurta, il Guerriero, il Dio dei pozzi e dei canali. E Enki fece un passo avanti e rispose con audacia a Enlil: “È stata un’azione insensata provocare questo diluvio. Nella tua ira hai distrutto il peccatore e l’innocente. È stato troppo. Se tu avessi mandato un lupo a punire i cattivi, o un leone, o anche un’altra carestia o una pestilenza… sì, avrebbe potuto essere sufficiente. Ma non questo terribile diluvio! Ora il genere umano è scomparso e il mondo è allagato. Solo quella nave e la sua gente si è salvata. Ed è accaduto solo perché Ziusudra, il Re saggio, ha visto in sogno i disegni degli Dei, e ha costruito la nave per salvare se stesso e la sua gente. Va’ da lui, Enlil. Parlagli. Perdonalo. Mostragli il tuo amore.”
«Il cuore di Enlil fu mosso a compassione. Aveva visto le devastazioni compiute dal diluvio, e il dolore lo aveva sopraffatto. Allora salì a bordo della nave di Ziusudra. Prese il Re per una mano e la moglie del Re per l’altra, li attirò a sé e sfiorò loro la fronte in segno di benedizione. Poi disse: “Eravate mortali, ma non siete più mortali. Da oggi in avanti sarete simili a Dei e vivrete lontani dal genere umano, alle foci dei fiumi, nella terra dorata di Dilmun.”
«Questa fu la ricompensa che ricevettero Ziusudra e la moglie. Nella terra di Dilmun essi vivono ancora ai giorni nostri, eterni, immortali. Grazie alla loro fede e alla loro perseveranza, il mondo rinacque in quei giorni in cui Enlil mandò il diluvio a distruggere il genere umano.»
Questo era il racconto che udii dall’arpista Ur-kununna, quando ero bambino nel palazzo di Lugalbanda.
30
Continuai a vagare, in preda alla disperazione e alla follia, ma adesso i miei vagabondaggi avevano uno scopo, per quanto folle e disperato fosse. Non saprei dirvi quanti mesi camminai, né quali steppe, valli e pianure percorsi.
A volte il sole era davanti a me, simile a un occhio enorme e rabbioso, che emanava abbaglianti onde di calore, e io barcollavo sotto i suoi raggi mentre avanzavo a fatica. A volte il sole era pallido e basso sull’orizzonte, ed era alle mie spalle, o alla mia sinistra. Non saprei dirvi quali direzioni fossero.
Trovai fiumi sul mio cammino, e li attraversai a nuoto. Dubito che fossero i Due Fiumi del Paese. Attraversai paludi e luoghi in cui la sabbia bagnata sembrava letame sotto i miei piedi. Attraversai dune e distese secche e desolate. Mi feci strada attraverso folti di canne spinose che mi sferzavano come nemici vendicativi.
Mi nutrivo di carne di lepre, di cinghiale, di castoro e di gazzella. Laddove mancavano tutti questi animali, mi cibavo di carne di leone, di sciacallo e di lupo. Quando poi non trovavo animali di nessuna specie, allora mangiavo ricci, nocciole e bacche. E, dove non c’era nulla da mangiare, non mangiavo niente, e non m’importava. Dentro di me c’era la forza divina. Il mio scopo era divino.
Dopo qualche tempo arrivai ad una montagna che doveva essere quella chiamata Mashu. Quella montagna ogni giorno sorveglia il sorgere e il tramontare del sole. Sapevo che era la montagna Mashu, perché le sue cime gemelle toccavano la volta celeste e i suoi seni toccavano in basso le porte degli Inferi. C’è solo una montagna come quella sulla Terra.
Si dice che a guardia di quella porta ci siano gli uomini scorpione, creature metà uomo e metà mostro, con la coda arcuata, snodabile, che dà una puntura fatale. Sono così temibili questi uomini-scorpione che il fulgore dei loro occhi è terrificante; da essi emana uno splendore che scintilla come un incendio in un dirupo. Il loro sguardo da solo uccide. Forse è vero. Non vidi nessun uomo scorpione quando salii sul Mashu. Per essere più precisi, incontrai alcune creature tristi e meschine che erano abbastanza mostruose, ma ben lontane dall’essere terrificanti. Può essere che altri, ricevutene le descrizioni di seconda o terza mano, li abbiano trasformati in mostri spaventosi. Succede spesso nei racconti dei viaggiatori, immagino.
Ma non negherò che ebbi un tremito di paura quando incontrai la prima di queste creature, a metà del Mashu, nella radura pianeggiante che si trova tra le due cime. Mi doveva già osservare da qualche tempo, visto che si trovava molto più sopra di me, con le braccia piegate con calma.
Per Enlil, era veramente strana! Credo fosse più uomo che altro, ma aveva la pelle scura, dura e coriacea, dove riuscivo a scorgerla, molto simile alla crosta di un animale marino, oppure, al duro rivestimento di uno scorpione. Quando la vidi mi fermai subito, ricordando quello che avevo sentito dire dei guardiani di quella montagna e del loro sguardo letale. Mi coprii rapidamente gli occhi con le mani e abbassai lo sguardo. Il cuore mi balzò in petto per la disperazione.
In una lingua molto simile a quella del popolo del deserto, la creatura-scorpione disse: «Non hai nulla da temere da me, straniero. Arrivano pochi visitatori qui: sarebbe un peccato ammazzarli.»
Quelle parole mi diedero sicurezza. Mi calmai, abbassai le mani e guardai senza timore la creatura.
«Questa è la montagna chiamata Mashu?», chiesi.
«Sì.»
«Allora sono molto lontano da casa.»
«Qual è il tuo paese, e perché l’hai lasciato?»
«Sono della città di Uruk,» replicai, «e mi chiamo Gilgamesh. Ho lasciato il mio paese perché cerco qualcosa che lì non c’è.»
«Gilgamesh? Non è il nome del Re di Uruk?»
«Come fai a saperlo, dal momento che vivi su queste montagne remote?»
«Ah, amico mio, tutti conoscono Gilgamesh il Re, che è per due terzi un Dio e per un terzo mortale! Sulla Terra ci può essere un uomo più felice di lui?»
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