Robert Silverberg - Gilgamesh

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Gilgamesh: краткое содержание, описание и аннотация

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Ritornai da solo al palazzo. Restai per tutto il giorno in silenzio, chiuso nella mia stanza, senza vedere nessuno. Tesi le orecchie per sentire la risata di Enkidu riversarsi in torrenti attraverso le sale. Silenzio. Tesi le orecchie per sentire le sue mani colpire la porta per chiamarmi. Silenzio. Pensai di andare a caccia, e immaginai di voltarmi verso di lui per prendere uno dei suoi giavellotti: ma Enkidu non sarebbe stato accanto a me. Avevo un desiderio di lui che sapevo non sarebbe mai scemato. Perché, mi chiesi, ero stato colpito da un simile lutto? Perché ero Re? Perché la mia vita era trascorsa di trionfo in trionfo, e gli Dei erano gelosi di me? Forse Enkidu mi era stato dato solo per poi potermelo togliere. Forse lo scopo degli Dei era farmi assaporare la gioia per poi farmi conoscere il vero sapore del dolore.

Ero solo, Sì, ero stato solo prima di Enkidu. Ma, il giorno della sepoltura del mio amico, mi parve di non essere mai stato così solo.

28

Si dice che il tempo sana tutte le ferite. Credo che sia vero, in un modo o nell’altro, sebbene spesso restino brutte cicatrici. Passava un giorno dopo l’altro, e io aspettavo che si formassero le cicatrici nel posto da cui Enkidu era stato strappato via. Vagavo per le sale del mio palazzo e non udivo le sue risate, non vedevo il suo corpo grande e robusto pavoneggiarsi sulle terrazze. Pensavo che presto mi sarei abituato alla sua assenza, ma non accadeva. Ogni giorno, qualche particolare mi ricordava che il mio amico non c’era più.

Non potevo sopportarlo. Dovevo andarmene da Uruk. Dovunque si posavano i miei occhi, vedevano l’ombra di Enkidu oscurare le strade. Sentivo gli echi della voce di Enkidu nel chiacchierio della folla. Non c’era un luogo in cui nascondersi al ricordo. Era una specie di pazzia, credo: un dolore irragionevole: invadeva ogni angolo della mia anima e rendeva privo di senso tutto quello che un tempo mi interessava.

Sulle prime mi rodeva e mi addolorava solo la perdita di Enkidu, ma in seguito arrivai a capire che la vera fonte del mio dolore era ancora più profonda: non era tanto la morte di Enkidu a tormentarmi, quanto il pensiero stesso della morte. Sapevo che, con il tempo, mi sarei riconciliato con la dipartita di Enkidu: non ero così folle da pensare che quella ferita non si sarebbe mai rimarginata. Ma come potevo riconciliarmi con la morte di tutti? Come potevo riconciliarmi con la mia morte?

Più volte nel corso della mia vita mi ero ritrovato ad affrontare questo problema, e l’avevo messo da parte. Ma la morte di Enkidu l’aveva sollevato ancora una volta, e questa volta non potevo evitarlo. La morte arriverà, Gilgamesh, anche per te. Questo mi vedevo davanti: la maschera nera e sardonica della morte. E il pensiero dell’inevitabilità della morte privava la mia vita di ogni gioia.

Come il giorno del funerale di mio padre Lugalbanda, fui preso da un tale terrore di morire che riuscivo appena a respirare. Sedevo sul mio alto trono e pensavo: Enkidu è morto e ora si trascina in quel luogo di polvere, vestito, come un uccello, di tristi piume, mangiando argilla fredda. E presto anch’io dovrò andare in quel luogo di tenebre. Un giorno Re in un grande palazzo, il giorno dopo una tetra creatura che sbatte le ali nella polvere: era questo il destino che mi aspettava?

Ricordavo che da bambino avevo giurato di sconfiggere la morte. Morte, non ti sono da meno! Così mi ero vantato. Ero troppo orgoglioso per morire, la morte era un affronto che non potevo sopportare, e volevo negare alla morte il dominio su di me. Ma era possibile? La morte aveva sconfitto Enkidu, senza dubbio, la morte sarebbe arrivata anche per Gilgamesh, a tempo debito.

E questa certezza mi prosciugava tutta la forza. Non volevo essere più Re. Non volevo compiere i sacrifici, versare le libagioni, riparare i canali e guidare il mio esercito in guerra. Perché darsi tanta pena, quando la nostra vita somiglia alla vita dei moscerini verdi che ronzano per qualche ora al crepuscolo e poi periscono? Che senso ha sforzarsi tanto? Ci vengono dati degli amici e poi ci vengono tolti: meglio non avere amici, pensavo.

E, pensando in questa maniera, giunsi a considerare senza valore o senza scopo tutte le azioni umane. Moscerini, moscerini ronzanti: non siamo nulla di più, mi dicevo. La morte è uno scherzo che ci giocano gli Dei. Che senso c’è ad essere Re? Re dei moscerini? Non volevo essere più Re. Volevo fuggire da quella città, e andarmene nella regione selvaggia.

Fu la paura della morte a portarmi via da Uruk. Non potevo essere più Re:j ero un uomo vuoto. All’ombra della paura della morte, mi allontanai da solo dalla città.

Non dissi a nessuno dove andassi. Io stesso non lo sapevo. Non dissi nemmeno che me ne andavo. Non nominai nessun reggente. Non lasciai istruzioni su quello che c’era da fare in mia assenza. Ero folle. Tra mezzanotte e l’alba, me ne andai furtivamente. Il mio bagaglio non era più grande di quello che avevo portato con me quando da adolescente ero fuggito a Kish.

La disperazione mi dominava. Il dolore incombeva su ogni mio pensiero. La paura si annidava come un serpente velenoso nel mio petto. I miei capelli erano scarmigliati: non li avevo più tagliati fin dal primo giorno della malattia di Enkidu. Il mio unico vestito era una rozza pelle di leone. Indossavo i sandali dei contadini: rinunciai alle mie tuniche eleganti, ai mantelli e a tutte le cose del genere. Penso che nessuno, vedendomi partire, avrebbe riconosciuto in me Gilgamesh il Re, tanto terribile e selvaggio era il mio aspetto. Penso che anch’io mi sarei riconosciuto a malapena.

Cominciai a vagare disperatamente nella steppa, senza seguire nessun piano, senza cercar nessun sentiero, sperando solo di trovare un posto dove potessi sfuggire ai segugi della morte.

Adesso non saprei dirvi quale fu il mio itinerario. Penso che cominciai a camminare verso oriente, in direzione di Elam, in quella regione verde e selvaggia, dove Enkidu fu scoperto. Forse credevo di scoprirvi un altro uomo che gli somigliasse. Ma ben presto mi diressi verso nord, in direzione del paese chiamato Uri, poi forse girai verso occidente, dove vive il popolo dei Martu, dopodiché non so quale direzione presi.

Non prestavo attenzione al sorgere o al tramontare del sole. Ero come un folle. Camminavo di giorno o di notte, e dormivo dovunque mi piacesse, o non dormivo affatto. Camminavo senza sapere dove fossi né dove fossi stato. Sono sicuro, almeno, di essere rimasto sempre all’esterno dei confini del Paese. Penso di essere arrivato molte volte alle mura del mondo, e di aver visto i luoghi che si trovano aldilà del limite della terra. Forse arrivai anche a quei luoghi, non lo so. Ero folle.

Temevo cose che non avevo mai temuto prima. Una notte, su un passo di montagna, dove l’aria era fredda, rarefatta e pungeva le narici, mi arrivò l’odore dei leoni: un odore aspro, acido e acuto. Se fossi stato Gilgamesh, e Enkidu mi fosse stato accanto, ci saremmo arrampicati di corsa sulle rocce, anche al buio, avremmo dato la caccia a quei leoni per le loro pelli e ne avremmo fatto dei mantelli prima di addormentarci. Ma Enkidu era morto e io non ero Gilgamesh: non ero nessuno, ero pazzo.

La paura mi assalì e mi fece tremare. Alzai gli occhi sulla luna, che era appesa, simile a una lampada bianca, al di sopra delle cime appuntite, e gridai a Nanna il Dio: «Proteggimi, ti prego, ho paura.» Quelle parole, ho paura, mi sembravano strane anche mentre le dicevo: c’era ancora qualcosa di Gilgamesh che viveva dentro di me. Ho paura. Avevo mai detto prima quelle parole? Avevo avuto paura della morte? Credo di sì. Ma aver paura dei leoni?

Nanna ebbe pietà di me. Mi fece cadere in un sonno profondo, nonostante la paura. Sognai giardini e frutteti, e quando la luce della mattina mi svegliò, mi trovai circondato dai leoni, che gioivano di essere vivi. Non ebbi più paura. Presi l’ascia in mano, il pugnale dalla cintura, e corsi tra quei leoni come una freccia che scatti dall’arco. Li colpii, li dispersi e ne uccisi più di uno. Era certo meglio che nascondersi e tremare per la paura. Ma ero ancora folle.

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